Il marzo del Teatro dell’Opera di Roma si è aperto all’insegna del balletto, con La Bayadère, in scena fino a giovedì due e portata integralmente all’Opera della capitale per la prima volta dal 2011.
Le musiche di Ludwig Minkus e l’originale coreografia di Marius Petipa sono state portate in scena dal corpo di ballo dell’Opera di Roma, con qualche giovanissima allieva della medesima scuola di Danza, guidati dal coreografo Benjamin Pech, alla ricerca, come dice nell’intervista a Lorenzo Tozzi, di una “Bayadère che duri nel tempo”.
Il repertorio classico, di per sé destinato a resistere al passare degli anni e delle mode, si trova oggigiorno a convivere tra la fedele riproduzione e l’innovazione, dividendo artisti, critici e pubblico.
Per la sua Bayadère Benjamin Pech ha cercato una via di mezzo; da un lato non offuscare il valore artistico e storico del balletto con un rifacimento troppo moderno, dall’altro prendersi il permesso di metter se stesso nella costruzione dello spettacolo, e con questo anche il suo essere uomo e artista di oggi.
Il risultato è un balletto molto gradevole, curata nei dettagli grazie all’attenta scenografia disegnata da Ignasi Monreal e ai giochi di luce curati da Vinicio Cheli, che da soli sono in grado di trasportare lo spettatore prima nella colorata ambientazione indiana, variopinta e brillante, e poi nell’onirico Mondo delle Ombre del terzo atto, che abbandona il senso di esotico per portarci oltre il conscio e il conosciuto.
A condurci le musiche dell’Orchestra dell’Opera e i suoi ballerini; in particolare per l’ultima serata sono stati Maia Mikhateli (Nikija), Victor Caixeta (Solor) e Susanna Salvi (Gamzatti) a intrepretare i tre protagonisti, a raccontare con la danza e solo quella una storia di amore e morte, di passione e perdono, di costrutti sociali che frenano anche i sentimenti più forti.
Menzione speciale per Michele Satriano nel ruolo del Capo dei fachiri, che alla danza ha unito una capacità di interpretazione del personaggio non da poco, dicendo col volto e col corpo anche più di quel che avrebbe potuto dire la voce in un diverso contesto.
Completa il quadro il lavoro della costumista Anna Biagiotti; soprattutto qui si crea la fusione tra tradizione e innovazione voluta da Pech, che nella stessa intervista a Tozzi ha spiegato come parte dei costumi siano rielaborati a partire da quelli già presenti nella collezione appartenente al Teatro dell’Opera. Non solo quelli dei protagonisti, anche secondari come il Raja (Micheal Morricone) o il Bramino (Damiano Mongelli), e lo splendente Idolo d’oro (Simone Agrò).
I costumi di tutti ballerini e le ballerine sul palco erano stati curati nei minimi dettagli, aumentando la sensazione di trovarsi proprio in quell’India così lontana da noi, nel tempo e nello spazio.
Una commistione di arti capace di trasportare lo spettatore oltre la sua comoda poltrona rossa, ricordandoci perché, che si sia tradizionalisti o innovatori, il balletto resta sempre un momento di gioia per l’anima.
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