Intervista con il Direttore del Teatro Quirino di Roma
Ieri è stata una giornata particolare: ad aprire le porte dell’imminente stagione teatrale del Teatro Quirino -oltre quelle del cuore- è Guglielmo Ferro, figlio d’arte di Ida Carrara e di Turi Ferro, nonché attuale Direttore del Teatro Quirino di Roma.
Classe 1965 e catanese di nascita, dapprima cresce in lui la vocazione come architetto per poi seguire una formazione registica, esordendo come assistente di Mario Missiroli, Sandro Sequi, Lamberto Puggelli e Antonio Calenda, ma è con Peter Brook che apprende la vera arte della regia teatrale.
Nella sua lunga carriera, ha avuto il piacere di dirigere personalità dello spettacolo come Ugo Tognazzi, Massimo D’apporto, Arturo Brachetti, Remo Girone, Mario Scaccia, Giulio Brogi, Pino Micol, Ida Carrara, Maria Paiato e lo stesso padre Turi Ferro, di cui tramanda i suoi preziosi insegnamenti.
Siamo nell’imminenza della stagione teatrale del Quirino. Da Direttore Artistico, qual è stato il criterio adottato che l’ha portata a scegliere questi spettacoli che sono ora in cartellone?
Innanzitutto la qualità. Noi siamo un teatro privato, quindi viviamo di biglietti, abbonamenti e non abbiamo sovvenzioni pubbliche. Noi siamo una piccola industria e stiamo molto attenti al fatto che il Quirino deve avere delle affluenze importanti perché altrimenti ne soffrirebbe, poiché noi non abbiamo la possibilità di avere una stagione totalmente sovvenzionata dallo Stato come l’Argentina. I nostri obiettivi e le nostre linee guida sono quelle di andare a ricercare il massimo della qualità e la varietà degli spettacoli: noi facciamo una drammaturgia classica, italiana e contemporanea, mischiando questo tipo di drammaturgie e cercando sempre di andare a vedere gli spettacoli che prenderemo nella stagione successiva -cosa che io faccio durante tutto l’anno- quindi vado a vedere gli spettacoli in giro per l’Italia. Le compagnie che vengono e che non sono nuove produzioni, sono sempre attenzionate e visionate o da me o dall’Amministratore Delegato. Non è il pensiero di un uomo solo il Quirino, ma è un gruppo che si confronta dove ognuno ha le proprie responsabilità. Io ho quella artistica, poi c’è quella gestionale. Queste sono le nostre linee guida, dove si cerca sempre di scegliere il meglio per il nostro pubblico.
In più occasioni, Lei ha raccontato il metodo del dubbio cartesiano utilizzato da suo padre Turi Ferro. Anche Lei utilizza questo metodo nelle sue regie? Inoltre, in che misura la sua formazione di architetto condiziona il suo ruolo da regista?
Il dubbio cartesiano di mio padre (n.d.r. il metodo utilizzato da Turi Ferro nella ricerca continua del personaggio, basandosi sulla teoria della Tabula Rasa di Cartesio per mettere sempre in dubbio la sua ciclica creazione e destrutturazione dell’analisi del personaggio) era il dubbio di un attore immenso e di uno scienziato del teatro che ha fatto della ricerca e del metodo uno strumento per arrivare a ottenere dei risultati straordinari. Mi piacerebbe molto poterlo usare, ma oggi il teatro è molto cambiato da quando c’erano quei grandi attori e quei grandi registi. Ora abbiamo un diverso metodo, purtroppo dato dal fatto che proviamo meno. Una volta i teatri avevano la possibilità di fare due mesi o due mesi e mezzo di prove per cui il metodo che usava Strehler, mio padre, quello della sperimentazione era possibile perché era un altro teatro, ed era quello giusto. Il grande teatro fino a oggi è stato massacrato nel sostegno pubblico. Se stiamo parlando degli investimenti che oggi il teatro italiano ha fatto, sono un centesimo di quelli che si facevano nel 1970 e 1980 in cui c’era una grandissima attenzione del pubblico, parlo ovviamente del Ministero della Cultura. Non ne faccio un problema di colore politico, ma un Ministro un giorno disse che “Con la cultura non si mangia” e sembra che i soldi che si danno alla cultura siano soldi buttati. Questo chiaramente ha creato un enorme problema: a Roma ci sono tanti teatri che chiudono, siamo rimasti veramente in pochi. A Roma si faceva un mese di repliche su dieci teatri. Oggi se ne fanno quindici giorni su cinque, il Teatro Stabile di Genova faceva venti giorni di programmazione, oggi ne fa tra i cinque e i sette giorni, in tutta Milano si stava un mese e mezzo e oggi si fanno venti giorni. È così in tutta Italia e il teatro si è un po’ desertificato, per cui il periodo aureo del Teatro Novecentesco del Dopoguerra è finito per vari motivi in cui purtroppo la cultura oggi non è così centrale come dovrebbe essere. Vedo però che sarà una delle poche cose che sopravviverà all’artificiale e alla tecnologia perché non si potrà sostituire. Io sono molto fiducioso che ritornerà un’altra volta l’esigenza della cultura: l’uomo, i ragazzi e la scuola bisogna farli crescere umanamente, altrimenti ci ritroviamo dei cittadini che sono degli animali. In sintesi, oggi quel metodo non è più attuabile perché non ci sono più le risorse per farlo, sarebbe impossibile per cui oggi noi dovremmo fare in un mese quello prima si faceva in tre. Quindi ci dobbiamo far venire pochi dubbi e chiaramente anche i risultati dei nostri spettacoli non sono così curati come lo erano quelli di una volta. Dobbiamo avere le idee ben chiare fin dall’inizio e quindi tutti i dubbi cartesiani che i nostri padri avevano sia alle prove che sul palcoscenico ce le dobbiamo risolvere a casa. Per quanto riguarda l’architettura, io sono un regista che parte dal luogo. Ci sono tanti registi che partono da sensazioni che la drammaturgia trasmette: un aspetto psicologico, drammaturgico oppure sociale. Il mio pensiero invece è sempre quello dell’architetto, di indentificare immediatamente un luogo mentre leggo un testo e poi su quel luogo costruire simbolicamente quello che per me quel testo vuole dire, costruendogli attorno tutto lo spettacolo. In questo modo sono rimasto così vicino all’architettura, un po’ perché diciamo ho avuto sempre questo pallino dell’architettura e poi perché ho avuto vicino delle persone che erano dei grandi scenografi più che dei grandi registi come maestri. Un po’ come Greenaway per il cinema, che parte dal luogo e poi sviluppa tutto il film.
In una intervista rilasciata nel 2022, Lei ha citato la sua esperienza con Peter Brook e la sua collaborazione con Moni Ovadia per lo spettacolo Assassinio nella cattedrale. Cosa ha significato per Lei affiancare queste due personalità così magnetiche?
Per quanto riguarda Peter Brook, io ero un ragazzino che voleva fare le prime esperienze e quindi sono andato a seguire le lezioni aperte al Bouffes du Nord per rubare il più possibile. Quei momenti sono stati fantastici perché il Maestro mi ha insegnato che cos’è l’essenza del teatro. Tutti i più grandi stranamente, parlo di Brook poi ovviamente passando tanto tempo con mio padre per cui anche con lui, con Svoboda, tutti i più grandi hanno qualcosa che li accomuna che è la semplicità. Sembra che tutti abbiano letto Marco Aurelio sulla cosa in sé, ovvero carpire il segreto più profondo della cosa che vogliono dire senza orpelli, surrogati, ma centrare l’essenza di quello che vogliono dire. Questo per me è stato un grande insegnamento ed è quello che io cerco sempre di fare. Cerco la cosa in sé. Non sono uno che costruisce lo spettacolo con gli accessori, ma tutto quello che posso levare, levo. Ormai negli ultimi spettacoli che sto facendo metto solo quasi una pedana e basta. Nelle furie giovanili viene da costruire, ma poi col tempo ti rendi conto che devi lasciare l’essenza della parola, la bellezza dell’attore, del gesto. Questo è quanto sono riuscito a prendere da uno come Peter Brook. L’esperienza con Moni (n.d.r. Moni Ovadia) è strepitosa perché è un attore con un carisma incredibile. Peraltro da L’ Assassinio nella cattedrale, nascerà quest’anno uno spettacolo che io farò a marzo con una produzione del Teatro Quirino e del Teatro Stabile di Brescia che è Moby Dick dove lui farà Achab nel Moby Dick. Una cosa esaltante per tutti noi.
Nel 2021 Lei ha dichiarato che il Cinema è ormai svanito per via delle numerose piattaforme esistenti. A distanza di tre anni è ancora questo il suo pensiero a riguardo?
I cinema non esistono più, sono ormai delle riserve indiane. I ragazzi non vanno più al cinema, ma non c’è più motivo di andare al cinema perché il cinema è un supporto tecnico che può essere sostituito e non perché il cinema sia finito. Dire che il cinema è finito non nel senso che non si fanno più film, ma è il cinematografo, cioè il luogo dove si vedevano i film. Il Cinema in sé non è finito, ma si è evoluto in un’altra cosa, in un prodotto per le piattaforme dove la gente rimane a casa. Io credo che ci sia un disegno ben chiaro, ovvero quello di farci rimanere a casa tutti. Fortunatamente io non ci arriverò, ma qualcuno si e sono preoccupato per i miei figli, soprattutto per il pensiero di non farci uscire più da casa, ovvero di trasformarci da consumatori a consumati. Tra Glovo, le piattaforme, i social, gli avatar e le intelligenze artificiali mi pare che possiamo mandare tranquillamente in giro qualcuno per noi, cioè gli avatar. Lo vedo nelle feste di mia figlia, dove c’è il dj e la pista vuota e i ragazzi che, invece di parlarsi, si mandano i messaggi. Sembra un brutto film di fantascienza.
Lei ha parlato di Cinema anche come luogo anche di interazione sociale, come potrebbe essere anche Il Teatro in questo senso?
Il Teatro secondo me sarà la cosa più rivoluzionaria del futuro: saremo i carbonari analogici insostituibili perché chiaramente tutto questo avrà un suo alter ego e avrà una sua ribellione. Secondo me tutto quello che rimarrà strettamente analogico e non sostituibile come la carnalità, la creazione del momento, la centralità dell’uomo. La robotica o la sostituzione dell’uomo mi sembra molto indietro e molto difficile da fare, mentre quella digitale è molto più semplice e più avanzata. Rimarrà la fisicità, il fatto di andare e incontrarsi, ed è quello che al cinema manca. È tutta la liturgia: incontrarsi, entrare dentro una sala, parlare, dire a quello che sta vicino di restare in silenzio, andare con gli amici e mangiare una pizza insieme. Ecco questa è la parte più importante sia del Cinema che del Teatro, la liturgia, la catarsi che era rimasta del vecchio teatro greco.
Lei ha un intenso rapporto con la Sicilia e sente molto forte la sua identità siciliana: ha mai pensato di ritornare a viverci stabilmente? Ma soprattutto, quanta sicilianità è presente nei suoi spettacoli?
No, non tornerei a vivere in Sicilia poi manco da quasi 20 anni. Non tornerei pur amandola e avendo i miei affetti più profondi in Sicilia. Per me è un po’ come dice una celebre frase latina “Ego nec sine te nec tecum vivere possum”, Né con te né senza di te posso vivere. Il rapporto con la Sicilia rimane conflittuale e in questo momento culturalmente parlando, la Sicilia è veramente messa molto male, soffre tanto come soffre tutta l’Italia. Hanno fatto il Bonus casa dove hanno investito tanti soldi per rimettere a posto le case degli italiani, ma dovrebbero fare il Bonus cultura, cioè investire tante risorse sulla cultura, sulle scuole, sui ragazzi che vanno a scuola, affinché rifrequentino il teatro e perseguano quello che desiderano. Non si rendono conto che, senza formare gli esseri umani, non si avranno coscienze culturali, sociali, civiche. L’America è diventata un posto ingestibile, le persone sono diventate degli animali. Non può essere tutto relegato al profitto e alla tecnologia e gli americani non sono più persone con cui confrontarsi perché non hanno più cultura e tutto questo ha un prezzo enorme. Io non so quanto ci sia di siciliano nei miei spettacoli, non lo so, quanto c’è di siciliano in Pirandello? La nostra cultura è particolare, il siciliano credo che sia l’essere più mitteleuropeo che ha più infarinature di cultura mondiale. Noi abbiamo avuto tutte le dominazioni europee: ci sono stati i cartaginesi, i tedeschi, i francesi, i normanni, gli spagnoli, gli arabi, gli ebrei. La complessità della Sicilia è data anche da questo, non è stata certamente il Lazio che ha avuto il Papa per molti anni o come la Toscana o il Piemonte che hanno avuto ben radicato in sé una cultura monolitica, noi siamo tutto e niente e questo è la bellezza.
Ferro ha saputo irradiare passione e consapevolezza del suo percorso artistico e identitario oltre a destreggiarsi come perfetto conoscitore della materia filosofica, letteraria e teatrale. Sono dichiarazioni di un regista che ha conosciuto un glorioso passato teatrale, che ha saputo conservare una tradizione artistica con una visione scientifica nello stile della scuola naturalista francese dell’Ottocento di Flaubert o di Zola, in un connubio armonico tra la metodicità architettonica e il componimento teatrale.
Foto di copertina da fonte aperta