La musica e l’immagine ti portano altrove.
Quando scendi le scale del Teatro La comunità, la casa di quel maestro che indubbiamente è Giancarlo Sepe, già respiri teatro, avvolto dalle gigantografie di volti e spettacoli beckettiani.
Ma questo suo antichissimo spettacolo (2001), già Premio E.T.I., Favole di Oscar Wilde, che è tornato per 40 giorni (marzo-aprile) in questi spazi, è veramente qualcosa di unico.
Ti avvolge in una dimensione onirica, tra poesia ed angoscia.
E, come da tanto tempo non vedevo, riesce veramente a rendere il pubblico attore delle emozioni e prigionie inscenate, parte integrante della macchina che lo inghiotte. Questo grazie alla gestione dello spazio, stretto e circolare, dove il poco pubblico ammesso (30 a serata), si trova a sedere in cerchio, a stretto contatto con gli altri, occhi negli occhi, con un effetto specchio, di rispecchiamento, che poi lo spettacolo moltiplicherà. Non solo infatti – salvo un iniziale monologo in presenza di Federica Stefanelli, seduta tra noi, vicino a uno specchio a leggio – quando cala il buio tutto sarà un susseguirsi di apparizioni dietro a quadranti a vetri di varia misura, volti e azioni che diventano il nostro sogno e il nostro stupore, la nostra domanda e la nostra tensione. Non solo.
A tratti il gioco dei fari illumina di sghembo anche la zona pubblico, lasciando trasparire i nostri volti ai volti, sommandoli come presenze, alla pari, a quelli attoriali dietro i vetri. Come si illuminasse l’ossatura dell’emozione, così come i fari a tratti, sparando al soffitto, illuminano strutture a nudo, con un effetto fantasmagorico che ricorda le rovine delle incisioni di Piranesi.
Infine, per stare ad uno dei paradigmi d’avanguardia degli anni settanta, lo spazio è organizzato per l’abolizione strutturale del punto di vista privilegiato e distanziante della quarta parete. Ma qui incrementando. Di solito o lo spazio era a corridoio, con azioni contemporanee agli estremi, tra cui dovevi scegliere, oppure circolare, ma con azioni sia dentro che alle spalle. Qui tutto è solo alle spalle, o quasi, ma soprattutto il pubblico è destabilizzato fisicamente, anche se poi, capito il meccanismo, si abitua, e partecipa dominando la dinamica.
Ma all’inizio.
Senti la terra che trema sotto di te, nel buio, e ti pare l’inizio di un terremoto. Ti senti fuori equilibrio. Poi lentamente capisci, che il pavimento è costituito da una pedana circolare mobile, che ruota e si ferma e riparte, cigolando.
La immagini dietro ai vetri appaiono e si spengono, ma ben presto capisci che sono ovunque. Inizialmente ti affanni a torcere il collo, per non perderti un fotogramma di quel lunario. Poi capisci che devi rinunciare. Non puoi possedere della realtà che ciò che ti si offre in uno squarcio. Mai l’intero, mai la totalità, mai una verità. Solo il protenderti ti è concesso, mentre tutto si alterna fugace, e spesso muto, in puri gesti.
Così è la vita, un doloroso protendersi. Così l’amore. Lotta, fuga, silenzio. Porte incandescenti di bagliore, che si aprono in fondo a corridoi, giardini con teli al vento, con e senza presenza umana. Libri sfogliati da mani senza volto, talora dal vento, mani che maneggiano drappi di seta, gioielli, presenze che da un quadrante all’altro si tendono all’altro quadrante, senza che si capisca se si vedono, se si percepiscono.
Ma che c’entra Oscar Wilde? Il cui volto pure ogni tanto compare, alla parete, in sequenze ripetitive, come a scandire una punteggiatura, un richiamo. E cosa le sue favole, di cui per niente si parla? Sono il punto di tensione alla bellezza, la disperata ricerca dell’amore che si infrange alla regola del mondo.
Perché le favole di Wilde, apparentemente per l’infanzia, sono struggentemente tragiche, e in quasi tutte l’amore finisce in morte, e il sentimento – negletto nel suo sacrifico – spesso è incarnato là dalla morte di un uccellino, simbolo per eccellenza della vibratile fragilità dell’anima.
E questo spettacolo a sua volta, di cui abbiamo descritto finora strutture ed epifanie, si muove a dilatare la tensione al bello e all’emozione in una tragica vasta sinfonia.
Infatti, a parte le poche ed essenziali parole che qua è là fanno capolino, la teoria di epifanie struggenti che ci avvolge ed interroga, diventa una vasta sinfonia onirica, dove all’urlo muto intenso che trafigge come un uncinetto le pareti risponde e sorregge una tessitura senza sosta di musiche, tra classica e musica di ricerca.
Così se apre e chiude, con elegiaca vastità lirica, Je crois entendre encore, struggente aria d’amore di Nadir da I pescatori di perle, di Bizet, accanto a più brani minimalisti del Kronos quartett e di Philip Glass ecco dipanarsi cori in gloria (Vivaldi) e demonici (Les djinns, di Fauré), e la tensione epilettica e mesta de L’inverno (Vivaldi, 4 stagioni), e i gorghi dell’anima del quartetto Le dissonanze, di Mozart.
Le parole.
Poche. Ma essenziali. Ci guidano ad intendere il messaggio che nello spettacolo si fa struttura. Poche parole chiare e concitate, accanto ad altre soffocate come lontananza borbottio eco, nel dilagare della musica, e talora di rumori d’acqua, registrati ma anche reali, come quando lo sgocciolio a smorire della tempesta è vera acqua, alle nostre spalle, che cade in una bacinella metallica, illuminata dal faro, in un anfratto, ma chiaramente percepita come qualcosa di più vero, spaziale, ed annunciata da un sentore di umidità.
Le parole.
Queste, del monologo iniziale, in presenza, lei intensissima nel volto acceso dal faro, e ieratica nel suo vestito nero; queste anticipano le scene che vedremo.
“Tutto è già accaduto. Le cose rimaste non sono che i resti di un sacrificio. Un dolore che a brandelli si ripristina qua e là. Come nella scena di un delitto, restano i corpi, le tracce, gli alibi, le prove. I sogni non hanno rapporto con l’esterno. Si può racchiudere tutto dietro una porta Ombre ! Le cose riposte nell’animo, di cui non si parla .. di cui si ha paura ! Fantasie .. depositate nella memoria.Pulsioni, esemplarità del gesto, che non narra un accadimento, ma una comportamentalità senza conseguenze. Difficile attivazione dei sensi, come se ognuno di loro, dei sensi, dovessero narrare, mettiamo, uno stato d’animo principale. La luce, che vive tra soggetti nascosti, da ingrandire, cosicché i particolari, passati in primo piano, si frammischiano nella gestualità corrente e non si possono più illudere. E’ come indagare su di una foto davanti al muro, che rivela soggetti nascosti. La favola gioca con sentimenti trascurati, irrompe, sovverte il comune sentire, con la manifestazione del coraggio. […] Dov’è la tua morte?!!!
[…] Dove vai mia vita? […] Non dimenticarmi mai. Stai attento ai tremori, alle attese agli sguardi nel vuoto. Porte che non si aprono. Le voci che non riusciamo più a sentire, come lo sguardo di una persona che ci volge le spalle. Quali parole nascono da labbra serrate?
Come dirlo meglio di così. Descrive tutto quello che vediamo nei quadranti.
E ancora…
Le cose che languono, e aspettano le notti per diventare sogni .. che sperano di muovere i loro artigli, e prenderci, restituendoci quell’amore, quella violenza che le rompe le tocca le schiaccia e rovina tra le nostre mani .. Le cose che toccano il nostro corpo, e colpiscono i nostri occhi restituendoci un ricordo fatto di persone di vetri chiari come il ferro di respiri pieni del rumore che trasuda di piacere .. Le cose che chiamano inascoltate, che parlano ognuna in una lingua sconosciuta, e che cadono dalle nostre mani .. e si sacrificano, gettandosi sul pavimento su letti d’erba su specchi d’acqua
E noi, del pubblico, esausti, penetrati, arresi, tra i mirifici artigli dell’arte, subiamo la violenza dell’amore che schiaccia e rovina.
Le cose qui, e le cose nostre che dentro rispondono mute, ci chiamano inascoltate. Parlano ognuna in una lingua sconosciuta.
La lingua dei sensi che apre mondi, di cui parla Baudelaire in Corrispondenze
E tra un fiammeggiare e l’altro di fantasmi, sulle note ampie di Bizet, ci svegliamo all’applauso.
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Favole di Oscar Wilde (per cominciare a leggerle) – Ideazione e regia di Giancarlo Sepe – con Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Michele Dirodi – scene Carlo De Marino – costumi Lucia Mariani – disegno luci, Pietro Pignotta – musiche Davide Mastrogiovanni | Harmonia Team – elettricista Erica Galante – scene realizzate da Scenografie Imparato & Figli – foto di scena Manuela Giusto – Produzione Teatro della Toscana – Teatro La Comunità – 1 marzo-17 aprile 2025