“Death to 2020”: un anno distopico raccontato con sarcasmo (ma è spaventoso)

Charlie Brooker e Annabel Jones, i creatori di Black Mirror, una delle serie distopiche di maggiore impatto del passato decennio, invece di portarci una sesta stagione dell’acclamata serie hanno capito che nessun prodotto avrebbe superato per distopia l’anno appena trascorso.

Death to 2020, uscito negli ultimi giorni di dicembre su Netflix e girato in dieci giorni nel mese di novembre, si presenta come un mockumentary, o finto documentario, e ripercorre in chiave sarcastica (più o meno) uno degli anni più bui della storia recente. Nel film vengono intervistati dei personaggi fittizi (Samuel L. Jackson interpreta un giornalista americano e Hugh Grant uno storico inglese, per dirne un paio) che commentano ironicamente gli sviluppi più straordinari (non in senso positivo, purtroppo) che hanno dato vita al 2020. Dai primi giorni segnati dalla crisi USA/Iran, in cui si stava per sfiorare una “guerra generale”, agli incendi in Australia, per poi raccontare l’arrivo della Covid-19, i vari lockdown e le figuracce dell’ex presidente USA Trump e del primo ministro inglese Boris Johnson. Si passa per le proteste “Black Lives Matter”, nate dall’uccisione di George Floyd per mano di un poliziotto, e la repressione delle stesse ordinate dall’ex presidente, fino ad arrivare allo scontro Trump/Biden in campagna elettorale.

Ogni evento è commentato e raccontato da finti personaggi (o veri, come nel caso della Regina Elisabetta II interpretata da Tracey Ullman). Jeanetta Grace Susan (Lisa Kudrow) è la portavoce non-ufficiale dei conservatori, un ritratto spaventosamente vicino ai politicanti che abbiamo visto soprattutto dopo i risultati elettorali, che negavano la sconfitta ad ogni costo; Bark Multiverse (Kumail Najiani) è un a.d.ricchissimo che, toccato dalle parole della piccola Greta Thumberg, costruisce un bunker in una montagna e ci si chiude dentro (“Ma la gente non la chiama egoista?” “Non lo so, è insonorizzato”); Gemma Nerrick (Diane Morgan) è “la persona media inglese” che narra di come durante il secondo lockdown, avendo finito tutto il catalogo Netflix, sia rimasta colpita da un programma chiamato “America” in onda sul canale delle news, dove chi riusciva a colorare più stati con il proprio colore (blu o rosso) avrebbe vinto il premio più grande; c’è Duke Goolies(interpretato dal Joe Keery di “Stranger Things”) che cavalca l’onda del politicamente corretto ad ogni costo, risultando anche ridicolo, ma sempre convinto delle proprie buone azioni.

Il mockumentary, lungo 70 minuti, è il ritratto grottesco di un anno particolare che ha segnato la vita di ogni persona. Viene analizzato per stemperarne la drammaticità, vuole essere una via di fuga meno spaventosa per ricordarlo con occhi diversi. Il risultato è interessante, alcuni personaggi sono scritti in maniera molto divertente, altri rappresentano bene alcuni strati della popolazione americana media. I momenti comici riescono forse meno nel loro intento verso l’ultima parte e le battute sembrano sempre più prevedibili.

“Death to 2020” è un passatempo intrigante, per rivivere con meno angoscia e più umorismo quello che tutti quanti abbiamo passato (e stiamo passando), sperando però che la serie Black Mirror possa riprendersi il primo premio per la distopia, al postodella vita reale.