Lo Spazio Diamante ospita, all’interno del Festival InDivenire, lo spettacolo ispirato all’opera del filosofo Søren Kierkegaard.
Una luce al centro del palco illumina una giovane attrice con la corona d’alloro in testa. Una laureata, probabilmente. Il personaggio è emozionato, ringrazia, chiede di non esagerare e, in un crescendo sempre più agitato, inizia a farfugliare frasi sconnesse, risposte a domande invisibili, tentativi di comunicare, sorridere o allontanare qualcuno. Parole mozzate, tagliate. Poi entrano in scena altri due personaggi, una ragazza e un ragazzo: iniziano una sorta di danza con una valigia tra le mani.
Non ci sono dialoghi. Le parole cedono il passo al corpo, alla danza, che diventa racconto visivo e simbolico di un vissuto interiore. Le possibilità di scelta che la vita ci offre e l’insicurezza nel seguire la propria strada emergono con forza. Kierkegaard, da cui il testo prende ispirazione, ci parla proprio della difficoltà di scegliere: ogni decisione esclude infinite altre possibilità, e questo può generare angoscia, disorientamento, persino disperazione.
I personaggi, interpretati da Martina Grandin, Alice Staccioli e Michelangelo Raponi, esprimono tutto ciò attraverso un’intensa energia corporea, una danza fatta di movimenti solitari e incontri reciproci. Il tema è quello delle scelte difficili, che molti giovani oggi, come ieri, faticano a compiere. Il desiderio di non deludere si materializza in una coreografia attorno alla valigia: oggetto-simbolo che viene passato, sollevato, abbracciato. È attraverso il corpo che si sviluppa una narrazione fisica, carnale.
In una scena particolarmente significativa, una delle attrici apre la valigia e inizia a tirar fuori vestiti, indossandoli uno sull’altro, come una bambina che scopre la gioia del travestimento. Danza, batte i piedi, si muove con entusiasmo infantile. Ma quella gioia è solo apparente. È il segno di un desiderio continuo, inappagato, di qualcosa che non arriva mai. Quando le scelte non sono più autentiche, quando il “bambino interiore” resta prigioniero, incapace di crescere, nessun vestito è sufficiente a renderlo appagato. La vera felicità sta nel trovare la propria strada, non nel collezionare possibilità.
Una domanda ritorna spesso durante la performance: “Sto facendo bene?” È la domanda che ogni bambino rivolge ai genitori, temendo di sbagliare e quindi di non essere amato. E questa insicurezza, continua a vivere nell’adulto che cerca approvazione senza riuscire a capire davvero cosa desidera. Non è una laurea a fare di qualcuno un adulto, ma la consapevolezza e la responsabilità di scegliere in coerenza con sé stessi, anche a costo della solitudine.
Lo spettacolo, fatto di poche battute e frasi a tratti senza senso, richiama per certi versi le opere di Samuel Beckett, dove la narrazione nasce non tanto dalla parola, ma dalla visione. Anche in Aut Aut i movimenti, i silenzi, le azioni apparentemente sconnesse, raccontano molto più di quanto farebbero dialoghi espliciti. Teatro, dal greco “theaomai”, significa infatti vedere, ed è proprio da lì che nasce la narrazione, dal guardare.
Il richiamo a Beckett non è solo stilistico, ma esistenziale. Come nelle sue opere, anche in questo spettacolo l’assurdo e il silenzio diventano strumenti di indagine dell’essere umano. I dialoghi spezzati, le parole svuotate di senso, i gesti ripetuti ossessivamente raccontano un vuoto da colmare, un’incertezza intima che si insinua tra le azioni e i pensieri.
Beckett portava in scena la condizione umana nella sua precarietà, e lo faceva rinunciando alla narrazione lineare, concentrandosi piuttosto sull’attesa, sulla ripetizione, sull’incomunicabilità. Aut Aut si muove in una direzione affine: ci invita a riflettere su come ogni scelta sia una rinuncia, su come la libertà possa generare spaesamento e, a tratti, paralisi. Il gesto e il corpo diventano allora più autentici della parola: mostrano ciò che il linguaggio non riesce a dire.
Come in Finale di partita o Giorni felici, anche qui c’è un oggetto, la valigia, che diventa simbolo. Ma è nel vuoto narrativo, nelle frasi sospese, nel bisogno costante di approvazione che si coglie l’eredità più profonda del teatro beckettiano: lo smarrimento davanti al vivere.
Come tutte le proposte all’interno del Festival, anche questo spettacolo è in divenire. Va completato, definito meglio nel ritmo, nella costruzione della partitura scenica. Alcune attenzioni tecniche potrebbero migliorarne la resa: una dizione più curata, un maggior equilibrio tra i movimenti dei diversi personaggi (in alcune scene un’azione troppo intensa ne oscura un’altra), una maggiore armonia tra i rumori generati in scena e le parole pronunciate.
Il messaggio, però, è chiaro e potente: formativo, soprattutto per i più giovani. Aut Aut parla a chi si trova davanti a un bivio, alla paura di sbagliare, al desiderio di non deludere, e alla necessità – non facile ma vitale – di scegliere per sé, e non per gli altri.
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Aut Aut – Regia di Valentina Cognatti – Con Martina Grandin, Alice Staccioli, Michelangelo Raponi – Spazio Diamante, Roma – Festival InDivenire 2 maggio 2025