Totò, un Grosso amore a ritmo di rumba

C’era una volta un Principe…

Potrebbe cominciare così la favola che Antonio Grosso protegge ancora in cuor suo, la favola che per pudore, o per troppo amore, non ci ha voluto raccontare. Sì, perché invece quella in scena è un’altra, e narra la storia di una maschera, appunto, di nome Totò. Quasi una coincidenza: ben voluta, naturalmente.

Un Principe in arte Totò sembra assolutamente costruito sulla vita di Antonio de Curtis, ma rintracciare pedissequamente gli episodi biografici in ordine cronologico, attraverso la veloce maratona a ritmo di rumba («‘A rumba de’ scugnizze» di Raffaele Viviani), non è così semplice né ovvio. Ogni accenno nasce da un fatto vero, o contiene un fatto veritiero, ma poi tanto l’abilità recitativa dei due protagonisti, quanto il gioco che la regia ha studiato per depistare lo spettatore, interpretano il momento storico del grande comico napoletano.

C’è un triste preambolo, che poi si evolverà nel finale: il viaggio in nave che dalla Sicilia ricondusse Totò a Napoli il 7 maggio 1957. Un viaggio angoscioso per il nostro Principe al fianco della sua ultima moglie, Franca Faldini. Totò si stava esibendo al Politeama di Palermo, quando all’improvviso sussurrò proprio a lei, in scena: «Non ci vedo. È buio pesto». Da quella sera cominciò per Totò un lungo calvario per combattere la cecità che lo accompagnò fino alla fine.

In scena, accanto a Grosso, regista oltre che autore, c’è Antonello Pascale. I due, per circa 90 minuti, si palleggiano, spesso a velocità vertiginosa, le battute tra un personaggio e l’altro. E allora vediamo Totò bambino che ribatte con cipiglio ai rimproveri di mamma Anna; le schermaglie con il cugino Edoardo, figlio di Zi’ Federico, che per un po’ gli fece da padre; Giuseppe, il padre aristocratico e non sempre presente; i primi datori di lavoro; e soprattutto le infinite sfaccettature di quella maschera che noi tutti conosciamo e amiamo: Totò nel vicolo della Sanità dove nacque e dove gli fu affibbiato il soprannome di ‘O spione, perché sin da piccolissimo amava osservare i viandanti per poi imitarli nelle «periodiche». Che erano recite casalinghe a cui partecipava qualche volontario durante le riunioni familiari. Pare che per Totò siano state le prime esperienze «teatrali».

C’è sempre Napoli dal primo all’ultimo momento. Si racconta della sua passione per i cani, animali ai quali in vecchiaia regalò abbondante vitto e degno alloggio ad oltre duecento esemplari che rischiavano la camera a gas. E c’è ancora Napoli. Si narra di quel famoso pugno al naso che gli stampò sul viso la prima matrice del successo. E poi di nuovo Napoli. Si ricorda anche l’episodio avvenuto in gioventù durante il servizio di leva che poi diede vita a uno dei suoi film più famosi Siamo uomini o caporali? E, tra una Napoli e l’altra, si alternano infiniti personaggi: da Gustavo De Marco, considerato dallo stesso Totò il suo maestro (anche se i due si incontrarono una sola volta), a Eduardo e Peppino De Filippo, il tirchio commendator Capece, fino a Giuseppe Jovinelli, casertano di Caiazzo, che da Roma lanciò la comicità del Principe nell’empireo del varietà. Spunta a sorpresa anche il nome di Macario, ma non quello di Nino Taranto. A questo proposito mi sembra giusto rammentare un episodio che rimetta ordine nell’élite dei comici di quel periodo. Nel 1940, mentre Totò si trovava in tournée a Torino, fu organizzata una recita per le forze armate. I nomi in cartellone erano Totò, Macario e Taranto. Si dovevano esibire in uno sketch intitolato La campagnata dei tre disperati, che divennero quattro per consentire a Nuto Navarrini di prenderne parte. Dietro le quinte, i quattro comici si accordarono sulle improvvisazioni da effettuare. Entrati in scena Totò cominciò a scaldarsi con battute sempre più serrate alle quali soltanto Taranto reagiva rispondendo a tono e a tempo. Macario e Navarrini, disperati, non riuscirono mai a inserirsi nel dialogo, al punto che il padrone di casa, stanco di far lo spettatore, li interruppe bruscamente: «Mi fate dire qualcosa pure a me».

E tra Grosso e Pascale i tempi sono talmente serrati che il pubblico non trova spazio per far partire l’applauso, che soltanto al finale, si impasta con quello dedicato al Principe del Sorriso. Insomma, si respira tanto Totò senza, per fortuna e per gratitudine nei confronti degli esecutori, mai vederlo. Sia Grosso che Pascale hanno evitato qualunque imitazione forzata, soltanto qualche accenno mimico, appena appena qualche intonazione e nulla più, ma sono rimasti sempre Antonio e Antonello. Una sola bombetta in scena e molti abiti appesi per ricordare con amore e riconoscenza il più fedele amico della nostra gioventù.

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