Le radici fanno rete

di Marco Buzzi Maresca

A breve distanza dalla magnifica performance all’Auditorium, con 5 fotogrammi per Bernardo Bertolucci, ecco di nuovo a Roma (12-14.5.2023), al Teatro Basilica, l’affiatatissimo due Montanari-Martinelli (Teatro delle Albe). Questa volta Ermanna Montanari mette il suo trascendentale e ctonio concertismo vocale al servizio di una fratellanza, una corrispondenza d’amorosi sensi, potremmo dire, in memoria del regista Bernardo Bertolucci (1941-2018). Dove l’arte della voce dialoga con l’arte dell’immagine, trovando consonanza e comune radice nell’arte della memoria, come narrazione e poesia, come omaggio alla vita. Un’arte della memoria e della vita che si propone prima di tutto come umile e religioso rito d’ascolto, celebrazione trasposizione. Del resto è tutta una tessitura di omaggi e di trasposizioni, essendo il discorso del regista a sua volta, come compare nelle memorie Il mistero del cinema (La nave di teseo, 2021), un continuo omaggio all’arte poetica del padre, Attilio (1911-2000), a sua volta in gran parte dedicata all’umile e religioso rispecchiamento della propria terra, secondo un sermo humilis da narrazione versificata (La camera da letto– 1984/1988).

Sentita a breve distanza la Montanari sembra ripetersi – e del resto ricicla una sua vecchia gloria, il poemetto Lus (Luce) di Nevio Spadoni, già portato in scena nel 2015. Ma non è un vero ripetersi, bensì un riperformarsi in variazionecome si ripetono grandi artisti o correnti artistiche, si tratti di Carmelo Bene o del canone della musica barocca. E in nulla se ne diminuisce il brivido esperienziale suscitato dalla sua trasfigurata vocalità.

Essendo comunque un omaggio a un cineasta, lo spettacolo si articola come un montaggio per fotogrammi, corrispondenti ad altrettante fasi del regista e del suo racconto. Una serie di stazioni-racconto intervallate dalla proiezione di foto documentarie sulla parete di fondo, e da stacchi musicali. In questa rete va tessendosi tuttavia come leitmotiv principale la narrazione di Lus, un ‘cantare’ popolare per la voce patetica e maledicente della veggente Belda, che a sua volta rende giustizia e memoria alla Madre Armida, accusata di stregoneria,  le cui ossa vengono gettate da un prete in terra sconsacrata. Una madre che come la figlia in realtà curava ogni malanno della sua gente, ma soprattutto il ‘mal d’amore’, con l’erba che brucia.

Ecco, diremmo quindi che questa è la cifra dello spettacolo. Il mal d’amore, che spinge a rendere giustizia e memoria ad ogni frammento di identità, ad ogni radice. Il mal d’amore per persone e cose a cui dobbiamo la vita.

E’ se la cifra è la tessitura, la relazione la radice, non sarà un caso che – quando Ermanna Montanari si inabissa nel suo, con i soliti abissi vocali – questo avvenga, rispetto alla quasi piena luce dello spettacolo, con momenti di buio dove la sola luce è quella  verticale, che investe una piccola porzione di pavimento, disegnandovi una rete, come se il racconto diventasse quello di una persona portata a spalla su un canestro da un contadino.

Per il resto, il racconto è semplice e commovente, e si articola appunto in cinque fotogrammi, i cui titoli vengono proiettati a parete, tra una foto e l’altra: Casarola(1), Il cinema e il suo mistero (2), Il cinema di poesia (3), Il niente (4), Parma e le rose (5).

Bertolucci inizia il racconto da Casarola, il paese dell’infanzia, il paese di pietra, di prima della scoperta della ruota. Lì ha girato il suo primo film, che definisce di espressione pura. 

   “ Volevo solo impressionare la pellicola: trattenere quel paesaggio, la sua complessità.

      Il suo significato era qualcosa di miracoloso che avveniva tra le mie mani e poi davanti 

     ai miei occhi. “

E all’Emilia di Bertolucci, che l’attrice definisce il pozzo dell’origine del regista, risponde la Romagna di Ermanna, col suo Campiano, da cui il suo dialetto selvatico. 

Parole calibrate e pregnanti, non casuali. E’ proprio cadendo in un pozzo che la misteriosa madre terra di Madre, il suo recente spettacolo, tenta sortilegio e redenzione dell’identità. E come definire meglio che selvatici i suoi scatenamenti verbali, il suo vocalismo ringhiante e d’oltretomba, le sue vertiginose impennate lamentose? E cos’è la Belda se non selvatica origine scorticata, rivendicazione d’identità terragna?

E così infatti comincia il suo scatenamento in Lus

“Che mi sono ridotta a credere di non esserci neanche tutta… / che mi sono vista … qui e li… allo stesso tempo / una pazzia direte voi / ma… delle volte… che ci penso / sono viva… o morta? / e quelli che in sogno mi dicono che sono a posto, e ridono… / dove sono? / Io sono la Belda… la Bêlda, avete capito? “ (ch’a m’so ardota a cédar/d’no esi gnanca tota,/ch’a m’so vesta a cve e a lè int e’ stes zir/ad temp,/una mateda a dirì vuiétar,/mo dal volt ch’ai pens,/a soia viva o morta?/E cvi che in sogn im dis che j é a post e i/rid mo in d’ei?/Me a so la Belda,/avìv capì?)

La seconda sezione è intitolata al mistero. Ma quale mistero? Il mistero dell’avventura all’incontro della realtà. Bertolucci parla sì della sua Parma come vivissimo laboratorio di cinema, e della passione del padre per il cinema, e di ogni film come di una nuova alchimia misteriosa. Ma il cuore è la citazione di una frase di Jean Rénoir

“Ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set. Non si sa mai: Qualcuno potrebbe entrare, inatteso. È la realtà, che ti sta facendo un regalo”. 

Potrei parafrasare con Mallarmé, ‘Un coup de dés jamais n’abolira le hasard’. Dunque si tratta dell’avventura della conoscenza – una avventura amorosa, come dice Ermanna (e qui sovviene il mal d’amore di Belda). Si tratta dell’apertura al rischio e all’imprevisto. Ed ecco allora, genialmente, come seconda armonica, che Ermanna si lancia a recitare l’Ulisse dantesco. Mai sentito niente del genere. Forse anche meglio di Carmelo Bene. Vertigini ed abissi gorgoglianti. Voce di tenebra. Ma soprattutto uno sgranato geniale di pause, dove ogni parola si incide nell’abisso del silenzio, ‘infin che ’l mar fu sovra noi richiuso’.

E questo è certo il culmine. Poi lo spettacolo si snoda con intelligenza. Nella terza sezione Bertolucci parla del legame tra cinema e poesia, ed Ermanna – mentre si sgrana una splendida musica sacra secentesca – recita una passione di Bertolucci, una poesia di Emily Dickinson sul paradiso. Ma se quei versi ci riportano alla semplicità delle origini 

“Che cos’è il Paradiso? Chi ci abita? / Son contadini? Zappano?” 

Ermanna li conclude con alcuni versi splendidi di Amelia Rosselli, che coniugano stelle orgiastiche e terrore, entusiasmo e rischio, 

“Ah, quante stelle! / Quante stelle magnifiche e orgiastiche / Che si riuniscono in cielo /

 per combattere la malinconia / E il terrore / Che così facilmente afferra / Chi non può dormir

di notte no?” 

riprendendo così il lato ulisseico.

Più nuda la sezione sul niente, dove la metafora è l’eterno ripartire. E dolce il finale, in Parma e le rose, che incrocia versi sereni sull’Emilia, del padre, e altri lamenti da Lus. 

“si… sì… lo so, lo so… / l’amore manda via l’amore… / l’amore dà un calcio all’altro amore / 

il mondo è pieno di bugie / il mondo è  tutto un’ingarbuglio / e se speri dei non averci a che 

fare…finisci male! / per levare i reumatismi, due pater e via / ma il mal d’amore è duro da 

far passare / È come scorticarsi l’anima…”

Della serie amori e contro amori. 

E le onde del mal d’amore si chiudono così, per epifanie e contro epifanie. 

Ed un silenzio intento, stupito, precede il solito applauso

5 fotogrammi per Bernardo Bertolucci

di Ermanna Montanari e Marco Martinelli
con Ermanna Montanari
sound design Marco Olivieri
luci Luca Pagliano
tecnico video Luca Fagioli
direzione organizzativa Silvia Pagliano
produzione “La Milanesiana” ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi

Teatro Roma
Francesca Romana Moretti

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