La scomparsa di Ettore Majorana

La visione di Leonardo Sciascia

«La fisica è su una strada sbagliata. Siamo tutti su una strada sbagliata» (Ettore Majorana).

Ci sono personaggi che sono stati resi famosi dalla Storia, perché il successo ha fatto di loro delle celebrità come artisti, scienziati, poeti, politici, ecc., insomma dei volti e dei nomi noti che hanno calcato le scene della popolarità. Tutti li conoscono, tutti li ammirano, molti li seguono come se fossero amori irraggiungibili per riempire le loro esistenze da illustri sconosciuti.

Alessio Caruso, Giada Colonna e Roberto Negri

Eppure ci sono grandi geni dell’Umanità che meritavano di più, precipitati nel palcoscenico della normalità, che nessuno ha voluto premiare, che a qualcuno hanno dato fastidio, che non suscitavano simpatia e nemmeno ammirazione, spesso passati all’archivio dell’anonimato o addirittura negli annali della follia.

Ettore Majorana, nato a Catania il 5 agosto del 1906,  sarebbe stato uno di loro, ma una sorta di ‘coup de theatre’ lo ha consegnato ai posteri per non farlo dimenticare mai più: nel Marzo del 1938, poco più che trentenne, dopo pochi mesi dalla nomina di professore di Fisica teorica per chiara fama a Napoli, è scomparso nel nulla.  «L’unica certezza è che già a gennaio del 1938 Majorana aveva chiesto di prelevare dalla banca i suoi soldi, e qualche giorno prima del 25 marzo aveva ritirato 5 stipendi arretrati, che fino a quel momento non si era preoccupato di riscuotere».

Come scrisse Enrico Fermi: «Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe certo riuscito».

La sua misteriosa scomparsa, però lo ha reso oggetto di ricerche, ipotesi, supposizioni, della curiosità delle motivazioni che lo hanno spinto a questa scelta: alcuni hanno provato a svilirne la figura, altri hanno fatto proprie le sue intuizioni, altri ancora hanno costruito storie romantiche oscillando tra le ipotesi di suicidio, di internamento in un monastero, di ritorno in Germania per mettersi a disposizione del  Terzo Reich, di aver scelto la vita da barbone a Roma, oppure di errare senza fissa dimora in Sicilia, di essersi trasferito in Venezuela o in Argentina sotto falso nome… Ma c’è chi ha indagato a fondo, che non ha voluto accettare nessuna delle versioni ufficiali o ufficiose o romanzate, un altro intellettuale del passato, che ancora si aggira tra di noi con le sue opere: Leonardo Sciascia. In un interessante e poetico ilm documentario di Egidio Eronico intitolato Nessuno mi troverà è proprio l’ipotesi di Sciascia ad essere considerata la più plausibile. Questa indagine è stata pubblicata in un saggio del 1975 intitolato La scomparsa di Majorana dove «l’autore raccoglie le notizie frammentarie sul fatto, le dichiarazioni di persone vicine a Majorana rielaborandole in modo personale, affascinante e suggestivo, a tratti quasi romanzato, delineando in modo efficace la peculiare personalità del personaggio, giocando con il mito dell’intelligenza suprema e delle sue presunte capacità profetiche nonché con le sue contraddizioni».

E suo nipote, Fabrizio Catalano, ne ha curato la trasposizione teatrale e regia con il titolo omonimo, per questo Quarta Parete lo ha intervistato.

Fabrizio, perché tuo nonno è stato così colpito dalla scomparsa del noto fisico tanto da dedicare tantissimo tempo alla ricerca della verità?

Mio nonno ha accarezzato a lungo l’idea di scrivere qualcosa sulla vicenda di Ettore Majorana, e nel 1975 aveva già racimolato e studiato molti documenti. Quelle carte, tuttavia, stavano sulla sua scrivania: come altre, relative ad altre storie, che mai sono state trasfuse in un libro. Poi accadde un evento che cambiò, o forse semplicemente accelerò, il corso delle cose. Il 3 maggio 1975, Sciascia, insieme a Moravia e a Segrè – uno dei fisici che aveva partecipato negli USA alle ricerche che avevano condotto alla bomba atomica –, è ospite della radiotelevisione della Svizzera italiana, in una trasmissione che commemora il trentennale della fine dell’ultimo conflitto mondiale. Nel corso della trasmissione, vengono mostrate immagini di esplosioni nucleari, e mio nonno ha l’impressione che Segrè le sogguardi compiaciuto. Questa impressione viene poco dopo confermata da un aneddoto che lo stesso Segrè racconta: di un operaio che gli aveva baciato la mano per ringraziarlo d’aver contribuito a inventare quell’arma micidiale. Sciascia ebbe in quel momento la consapevolezza che, concentrati sulle loro ricerche e sulle loro ambizioni, o addirittura accecati dalla vanità, anche a trent’anni di distanza gli scienziati del progetto Manhattan non si erano resi conto di cosa avevano creato. Indignato – parola abusata ma ritengo corretta in questo caso – da tutto ciò, mio nonno, quella stessa estate, scrisse questo libro incatalogabile – saggio, pamphlet, docufiction – che è La scomparsa di Majorana.

Con quali criteri aveva svolto le sue indagini e quanto tempo aveva dedicato all’opera che ne è scaturita?

Mio nonno non lavorava ossessionato dal tempo. Raccoglieva materiale – quando i suoi libri erano ispirati da fatti realmente accaduti – anche grazie all’aiuto di amici, leggeva, studiava, lasciava sedimentare. La stesura del romanzo o del saggio era poi piuttosto rapida, e gli prendeva più o meno un mese, nel momento più caldo dell’estate.

Lo affascinava maggiormente il travaglio interiore della scelta dello scienziato o la sua indiscutibile genialità?

Penso il travaglio interiore, anche se probabilmente i due aspetti non sono – in un profilo come quello di Ettore Majorana – esattamente distinguibili. Solo un genio schivo, un genio malgré lui, un ragazzo – dixit Sciascia – che portava la scienza dentro di sé, poteva vivere con sgomento e con angoscia ciò che altri avrebbero accolto con irresponsabilità e vanagloria.

Riteneva ci fossero responsabilità occulte dei suoi colleghi o di qualche Potere che si sentiva minacciato dalla personalità di Majorana?

Majorana, indubbiamente, non era simpatico. Sicuramente, in un misto di spirito ribelle e coscienza delle proprie capacità, della propria diversità, Ettore non riconosceva, e non sapeva fingere di riconoscere, una superiorità a Enrico Fermi, né sapeva e voleva entrare in quel meccanismo tipicamente italiano in cui bisogna ingraziarsi “il capo”. Nel gruppo di giovani scienziati che lavoravano in via Panisperna, Majorana era piuttosto isolato. Era un mistero. Un segreto. Ma tutto questo non deve aver influito in maniera risolutiva sulla decisione di Majorana, se non nella misura in cui lui sentiva di non potersi confidare con nessuno.

E tu cosa pensi dopo tutti questi anni e le notizie che all’epoca ancora non si potevano sapere?

A me sembra che, come sosteneva Sciascia e come emerge dall’interessante documentario di Egidio Eronico, con il quale tra l’altro durante la stesura del testo teatrale ho avuto delle conversazioni assai piacevoli e produttive, e che colgo l’occasione per ringraziare, l’ipotesi che Ettore si sia rifugiato in convento rimanga la più plausibile. Detto questo, credo pure che, a distanza di più di ottant’anni, e vieppiù in uno spettacolo, cioè in una cornice che può e deve essere simbolica o metaforica, sia al contempo più poetico e più utile modellare il destino di un personaggio come Ettore Majorana in maniera da volgerlo in un esempio per contrastare le aberrazioni del presente.

Perché hai incentrato la tua attenzione proprio su questa opera di Sciascia, tra le altre?

Oggi potrei rispondere: per un’atroce premonizione.

Quando, alcuni anni fa – era, se ricordo bene, la fine della primavera del 2017 –, il produttore con cui più spesso ho lavorato in questi anni, Gino Caudai, mi propose di tornare a dirigere uno spettacolo tratto da un’opera di mio nonno, mi venne spontaneo suggerire La scomparsa di Majorana: per non limitarsi a parlare di corruzione, malapolitica e mafia – che purtroppo restano argomenti di sconcertante attualità – ma per affrontare il tema della deriva della scienza. Lo spettacolo ha debuttato all’inizio del 2019. E non è inutile ribadire, soprattutto in un paese come l’Italia dove tutti tendono a rimuovere gli anni di deliri sanitari, che di queste derive abbiamo avuto in seguito prove sconvolgenti, terribili, feroci perfino. Inoltre, nel frattempo, si è imposto tra noi proprio quel tema del pericolo atomico che aveva ossessionato il giovane Ettore. Insomma, sarebbe difficile immaginare un testo che più di questo ci metta in guardia contro le minacce che ci circondano.

Come hai ideato la trasposizione teatrale di questo saggio con la poesia del romanzo?

In verità, è stato piuttosto semplice. La struttura narrativa mi è stata suggerita dalla data di nascita di Ettore Majorana. Ma meglio non anticipare nulla, per chi verrà a vedere lo spettacolo…

Come hai impostato la Regia della Rappresentazione Teatrale?

Ho dei miei piccoli marchi di fabbrica – non oso dire uno stile – che ormai accompagnano i miei spettacoli: una recitazione molto naturalistica – di realismo oltranzista aveva parlato anni fa un noto critico – in uno scenario metafisico o simbolico, spesso popolato da giochi di chiarore e d’ombre. Lo spettatore, allo spegnersi delle luci di sala, dovrebbe sentirsi trascinato in un mondo riconoscibile eppure diverso, potrei dire magico. Usando la parola magico nella sua accezione ancestrale: un rito che rinnova, dalle caverne degli albori della storia umana a oggi. In questo percorso, ho trovato degli eccellenti compagni di viaggio nei quattro attori che compongono il cast – Loredana Cannata, Alessio Caruso, Roberto Negri, Giada Colonna – che in un crescendo d’intensità e ritmo riportano gli spettatori a una tremenda notte del 1945.

Quanto peso hanno i personaggi, la storia, la scenografia e le musiche?

Tutto ha un peso, tutto concorre alla (ri)costruzione di un’atmosfera, di un’armonia, di una magia. La messa in scena di uno spettacolo, se realizzata senza egocentrismi e se non vissuta come sfogo di frustrazioni, è un bellissimo ed entusiasmante lavoro di squadra.

Quale messaggio intendi trasmettere allo spettatore che sarà presente allo spettacolo?

Che si può dire di no. Viviamo in un mondo incline al compromesso, passivo, inane, ignavo. Di fronte a proposte che implicano piccole o grandi concessioni etiche o morali, la maggior parte della gente pensa: “Tanto, se non lo farò io, lo farà qualcun altro”. Invece le cose non stanno così: intanto io non lo faccio; e, se qualcun altro vuole cedere, è un problema suo.

Loredana Cannata e Giada Colonna

Quale insegnamento può fornire a noi tutti la storia di Majorana?

Che bisogna essere capaci di fermarsi e di riflettere. Che a volte è necessario tornare indietro e imboccare un cammino divergente. L’Europa di oggi si sta – simulando di non accorgersene, a tratti baldanzosamente – avviando verso il dissolvimento. Di questo passo, ci aspetta un futuro fatto di devastazione, di cannibalismo, oppure – ipotesi che mi appare addirittura peggiore, perché chiude le porte alla consapevolezza di cui abbiamo già parlato – dominato da regimi repressivi, basati sulla “magia nera”, di cui abbiamo avuto una embrionale manifestazione negli anni del delirio sanitario. Ascolto intorno a me molte persone dichiarare che il pianeta starebbe meglio senza gli esseri umani; eppure io non credo che l’uomo sia cattivo in sé. Ha però bisogno di risvegliarsi dall’ipnosi del piccolo capriccio a buon mercato, della tecnologia usata per rubare tempo libero, dell’omologazione caratterizzata dalla continua acquisizione di beni superflui. Esempi come quello di Majorana o di Leonardo Sciascia ci mostrano che faremmo ancora in tempo a cambiare rotta. Ma sarebbe necessario riconsiderare profondamente un modello sociale iniquo e stolto. E affrancarsi dall’egocentrismo.

La scomparsa di Majorana – adattamento e regia Fabrizio Catalano – con Loredana Cannata, Alessio Caruso, Roberto Negri, Giada Colonna – scene e costumi Katia Titolo – musiche Fabio Lombardi – voci fuori campo Gianni Garko, Massimiliano Buzzanca, Ivan Giambirtone, Roberta Badaloni – produzione Associazione culturale LAROS di Gino Caudai

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