“Il Canto di Edipo” di Alessandro Serra offre una visione alternativa del dramma e della condizione umana
Una tragedia che si plasma, si modella sugli spazi del teatro, si fa storia e lezione allo stesso tempo: lo spettacolo di Alessandro Serra condensa tragedia, canto, mito ed emozione in un tutt’uno che ha “riempito” il Teatro Olimpico di Vicenza.
Il “riempire” ha qui un’accezione particolare: un senso di pienezza, la percezione di grandezza, di multi sensorialità, l’impressione che anche il proprio corpo è attraversato dagli effetti, dalla vicenda, dal sentimento cantato, urlato, stravolto. Quel “tanto” che colma, capace di far vivere ciò che la vita quotidiana silenzia nella sua ripetizione. In questo sta l’esperienza site-specific proposta.
Il Canto di Edipo, in scena dal 27 al 29 settembre 2024 al Teatro Olimpico, si inserisce all’interno del 77° Ciclo di Spettacoli Classici, diretto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli, ed è la versione appositamente realizzata per gli spazi teatrali palladiani di Tragùdia del regista Alessandro Serra. Una sorta di personalizzazione scenica e narrativa: un palco essenziale, contraddistinto da cambi di luce, riflessi chiaroscuri, buio e penombra, cambi cromatici stroboscopici, attraversato e reso vivo dal grecanico, la lingua parlata in alcune zone della Calabria (parte della Magna Grecia del tempo). Questa scelta particolare ha reso la vicenda di Edipo materiale, vicina e fortemente vissuta. Dialoghi e canto si sono intrecciati per narrare la tragicità e la condizione umana, l’inesorabilità del destino, la dannazione dell’inconsapevolezza.
L’opera è liberamente tratta dalla scrittura di Sofocle, e traccia il percorso, la parabola del protagonista. Dal suo essere nominato “signore della mia terra” (Tebe) alla discesa lenta negli “abissi di morte”, fino all’epilogo.
Edipo, sconfitta la Sfinge “cantatrice spietata”, viene incoronato re di Tebe. La città è vittima della peste, è Creonte (fratello di Giocasta, moglie di Edipo) ad annunciarne le cause: l’uccisore del re precedente Laio si trova ancora tra le mura cittadine. Edipo inizia così la lenta discesa nei suoi abissi profondi, dalle iniziali crepe del passato, aperte dall’indovino cieco Tiresia, fuoriesce una verità indicibile, nascosta. La sua stessa maledizione.
Dopo aver riportato alla luce l’episodio del parricidio (inconsapevole) avvenuto a Corinto, in un flashback scenico ben inserito, Edipo cerca il pastore che, ancora bambino in fasce, gli salvò la vita. È lui a dare conferma del tremendo dubbio: Edipo è figlio, in realtà, della sua stessa moglie Giocasta e di Laio (morto, quindi, per mano sua). Quel “sono stato io…sono io l’impuro” echeggia e lascia sgomenti, disorientati, sancisce la condanna certa sin dall’inizio.
Con la verità davanti agli occhi in tutta la sua crudeltà e inesorabilità, Edipo accoglie tra le braccia la madre (moglie) Giocasta, appesa senza vita, e al fianco del suo corpo esanime decide di accecarsi. “Oh luce, possa io vederti l’ultima volta” rappresenta la dichiarazione della punizione: avere davanti il fatto compiuto è troppo, è un dolore insopportabile, oltre ogni giustificazione. Edipo conosce così l’esilio e il dissidio, l’odio tra i suoi figli maschi, la “sua stirpe maledetta”.
Accompagnato dalle figlie Antigone e Ismene, il protagonista, ricurvo su di sé e su di un bastone, vestito di stracci, arriva ad Atene dove trova rifugio dal re Teseo. È qui che lo raggiunge il figlio maggiore Polinice implorandolo di tornare a Tebe per riprendere il potere, usurpato dal fratello minore Eteocle. Edipo non accetta, ribadisce la maledizione a cui sono condannati i figli e, nei momenti finali, si spoglia di tutto per accogliere la propria fine e l’unica consapevolezza: esiste un solo termine in grado di dare senso e fine ai tormenti, alle sofferenze, alla tragicità che colma la vita umana, “una sola parola può dissolvere tutti questi tormenti: amore” (tratto dal dialogo all’interno dell’opera Edipo a Colono di Sofocle).
È con questa singola parola che si chiude Il Canto di Edipo, in tutta la sua portata emotiva e artistica. Uno spettacolo intenso, che ridà spessore all’opera già conosciuta ai più, portata in scena da un gruppo di interpreti bravissimi, capaci di cantare e di parlare quella lingua lontana, rendendo il dramma, paradossalmente, vicino e attuale. La consonanza con la condizione umana di oggi è data dalle contraddizioni e dalle ambiguità, da quei “doppi” che popolano le azioni e le intenzioni, il peso delle scelte, la superbia, la fine prestabilita per tutti. L’umanità cantata sul palco non è così diversa da quella spettatrice.
C’è poi la grande componente musicale, il ruolo del coro è fondamentale e disegna la cornice e l’accompagnamento alle azioni, ma allo stesso tempo è immerso nel contesto rappresentato. Il coro non è diviso dai protagonisti in scena, ma ogni interprete ne fa parte. Torna ancora questo tutt’uno, quest’insieme potente che restituisce pathos, coinvolgimento, il dramma analizzato e pensato da Serra.
Il momento appena successivo all’accecamento autoinflitto è straordinario: il buio totale con i gemiti sofferenti di Edipo sottolinea e trasmette, a livello percettivo e sensoriale, il passaggio dallo strazio e dal dolore fisico immediati ai sospiri più distesi, di chi si è arreso alla sua condizione.
Diversi sono i passaggi carichi di impatto e di profondità espressiva, artistica: le urla cantate di Tiresia, la lingua dei segni utilizzata da Teseo, le movenze e la voce quasi ridicole, artificiose di Polinice, la bellezza poetica e struggente delle protagoniste femminili segnate dalla sciagura, l’intensità della figura stessa di Edipo che vive su di sé la rappresentazione della condizione umana. Forza, giustizia, verità da un lato, inconsapevolezza, colpa, dannazione dall’altro; ricerca, fuga e accettazione. Su tutto vige l’implacabilità di un destino già segnato, la morte che accoglie la reale e sola condizione umana presente.
Da quest’opera, così pensata da Alessandro Serra, scaturisce un messaggio, una piccola lezione: Edipo ha conosciuto l’orrore, la colpa, ha attraversato le fasi della dissoluzione approdando, però, ad un riscatto al fianco delle proprie figlie. Il finale del dramma (e della vita in generale) pareggia i conti, rimette in pari l’esistenza. Edipo è solo, nudo, in tutta la sua fragilità, non esistono più punizioni, errori, dannazioni. La morte annulla, allontana, svanisce. È così dall’inizio dei tempi e lo sarà fino alla fine.
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Il Canto di Edipo – con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino – regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra, traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera, voci e canti Bruno de Franceschi, collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini, collaborazione al suono Gup Alcaro, collaborazione alle luci Stefano Bardelli, collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu, direzione tecnica e tecnica del suono Giorgia Mascia, direzione di scena Luca Berettoni, costruzione scena Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin, produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma; in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia – Teatro Olimpico 27 al 29 settembre 2024
Immagine di copertina / in evidenza: Roberto De Biasio