Diario di un inadeguato: le voci del passato tra ironia e disillusione

 di Raffaella Bonsignori

All’Off-Off di via Giulia, in quel delizioso salotto teatrale che anima una delle più belle strade del centro di Roma, è in scena, fino al 27 febbraio, Diario di un inadeguato, scritto da Emanuele Salce insieme ad Andrea Pergolari e interpretato dallo stesso Salce affiancato da Paolo Giommarelli; regia di Giuseppe Marini.

La verità, quella della rievocazione pubblica di eventi privati, entra in teatro mascherandosi, come il palcoscenico impone, affiancata da una non verità che rende pièce la vita. Emanuele Salce rievoca episodi del suo passato sull’onda delle pagine di un diario. Ma i ricordi sono verità che riaffiorano? Forse rendono solo l’idea di quel vissuto filtrato attraverso la percezione personale. Federico Fellini, nel suo Amarcord, ha trasformato un seno abbondante in qualcosa di esagerato, ha descritto muri di neve invalicabili … Distorsione mnesica, introiezione psicologica del ricordo.

E bisogna riconoscere che Emanuele Salce fa tesoro di una raffinata psicologia nel rievocare e inventare e ancora rievocare: la sua è un’onda piacevole di parole che marciano sulla più sottile e intelligente ironia; un’ironia che ricorda i primi racconti a sfondo autobiografico di Giuseppe Berto.

È un teatro di narrazione, certo, ma non solo. Del resto, la narrazione teatrale è una sorta di spugna che chiama a sé stili e temi molteplici, trasformandoli come in un caleidoscopio. Sul palcoscenico dell’Off-Off il pubblico ha visto frammenti di vita vissuta e di vita inventata comporsi a formare un quadro toccante. A tratti quest’opera ricorda il teatro-conferenza de L’uovo di Marceau, che, alla fine degli anni Cinquanta, Giorgio Albertazzi interpretò con la regia proprio di Luciano Salce, il padre di Emanuele.

Paolo Giommarelli è il suo perfetto antagonista: un alter ego che pronuncia le parole brutali che il protagonista non riesce a dire di sé; un corifeo greco, che ascolta, giudica, dialoga.

La regia di Giuseppe Marini è raffinata, perché non imbriglia il flusso di coscienza, ma anzi lo evidenzia nel costante passaggio dal soliloquio al dialogo, un falso dialogo con personaggi presenti solo nella voce del protagonista; e, quindi, dal dialogo al sogno. Salce e Giommarelli sono prigionieri in un cubo, all’interno del quale è allestito uno spettacolo nella vita, più che sulla vita. Una sedia da scrivania si muove da una parte all’altra, inventando, di volta in volta, una scena diversa e disegnando un invisibile arco, forse quello del Tempo, forse quello della Vita. Salce e Giommarelli si trasformano in diversi personaggi. Tante le voci. In fondo è proprio così che spesso il passato si presenta: con un affollarsi di voci da riordinare nella mente. Tutto questo dà adito ad un’eccellente prova attoriale. Bravissimo Giommarelli, ma davvero strepitoso Salce, che riesce a dialogare con se stesso interpretando più ruoli, più ombre del passato, sia femminili, sia maschili. Il pubblico vede tanti personaggi. In scena sono lui e l’onda dei ricordi, secondo lo stile proprio che la narrazione in teatro richiede. A volte il suo soliloquio è un a parte sui generis: non esclude gli altri attori, che non ci sono, esclude se stesso da se stesso ed offre al pubblico un Salce visto dagli occhi dell’inadeguato, attraverso un’intenzionale rottura degli schemi di finzione. Un bel gioco di immedesimazione e straniamento. Salce è un architetto di fatti e di emozioni; racconta storie che lo vedono inadeguato; parte dal vero per arrivare alla maschera, alla drammatizzazione della vita. Ma chi è veramente adeguato nella propria pelle, nella vita relazionale?

Egli si rende medium tra realtà e finzione, in ciò vestendo il ruolo dell’attore grotowskiano; e si immerge nella vasca dei ricordi disegnati dall’inconscio, seguendo i canoni di Stanislawskij.

«Benvenuti a teatro. Dove tutto è finto ma niente è falso» esordiva Gigi Proietti in uno dei suoi più famosi spettacoli. È ciò che accade anche qui.

Le vicende sono apparentemente semplici, vicende di vita, ma la cura dei particolari, la scelta delle parole le rendono iconiche: la prima parla dell’indeciso amore per una donna, che arriva nella sua vita all’improvviso, la seconda di istanze autodistruttive, ma suonano un falso schermo ove si riflette un’altra forma d’amore, quella per il teatro, per l’interpretazione, che è salvezza, infine.

Diario di un inadeguato è un ideale seguito di Mumble Mumble, lo spettacolo con il quale 12 anni fa Salce portò in teatro un altro spaccato della sua vita, descrivendosi come una pallina di carta, chiuso in se stesso di fronte ai due giganti che ha avuto come figure paterne, Luciano Salce e Vittorio Gassman. Con lo humor molto inglese della commedia macabra aveva narrato gli accadimenti e le manifestazioni d’affetto amicali e familiari legate alla morte di entrambi. Anche qui la vicenda risibile si consuma in parte all’interno di un funerale, quello di una zia acquisita; anche qui si affaccia un analista; anche qui trionfa l’essere timoroso, isolato, quasi trasparente. Il testo di dodici anni fa racchiudeva un percorso contrario a quello del protagonista del bel romanzo di Didier van Cauwelaert Fuori di me, ove un uomo non viene riconosciuto da nessuna delle persone che dovrebbe conoscerlo. Ecco, Salce, in Mumble Mumble, descrive esilaranti scene in cui parla con parenti ed amici che gli sembra di non conoscere. In realtà, anche in Diario di un inadeguato c’è il fenomeno della spersonalizzazione relazionale; meno evidente, ma c’è, poiché è lui stesso che, a volte, non si riconosce e si presenta vestito di dubbio, di dilemma, amletico e ironico al contempo, capace di lasciare alle parole di Majakovskij o di Montale quel senso dell’amore che gli va stretto, prediligendo la confessione della propria traballante eppur esilarante esistenza relazionale. Tutto questo ha un impatto teatrale notevole. Il pubblico vive la storia narrata e ritrova qualcosa di simile nella propria vita, ridendo infine di se stesso. Il personaggio Salce ben potrebbe chiamarsi Ognuno, come il protagonista di una famosa Leggenda, o George Antropus, come l’eroe di Wilder, che, all’interno di un percorso diacronico, rappresenta Adamo, il primo uomo, l’uomo tout court. Salce e Giommarelli piacciono anche perché parlano della vita di molti, delle paure di molti, delle ossessioni di molti. E, diciamocelo, è bello, ogni tanto, ridere di noi stessi in compagnia di chi ci assomiglia!