C’è del marcio in «Fake»: il nostro marcio virtuale

Lorenzo Balducci viene accolto dal pubblico che affolla la sala del Off/Off con l’entusiasmo di una star. Qualche accenno di ballo e dà il via a Fake, il nuovo show che si annuncia come il proseguimento dell’altro (che però non abbiamo visto), ma con qualche variante: evitare di parlar male di chi non gli è simpatico, annuncia tradendosi immediatamente. Le risate decollano e le grida dei fan lo entusiasmano visibilmente. Lui ci crede. È solo in scena. Solo con un microfono ben stretto in mano, un po’ troppo abbondante, forse, per un teatro di prosa, ma nulla che possa intimidire chi, in pochi secondi, con un volo pindarico, passa da Renato Zero a Parmenide.

Balducci mostra tanta spavalderia da far sembrare che sia lui l’autore e il regista di se stesso. Invece, Fake è un testo composto a quattro mani – da Riccardo Pechini e Mariano Lamberti che ne ha curato anche la messa in scena – scritto appositamente per lui, come un vestito confezionato su misura; tant’è che molti passaggi appartengono alla sua biografia. Un vestito, però, che, quando lo si indossa, potrebbe apparire, qua e là, con qualche difetto: se da una parte sa esaltare le qualità dello show-man, dall’altra rende assai arduo il mestiere dell’attore che è costretto a dribblare con scaltrezza le trappole del recital televisivo del sabato sera, quello tipico degli anni Ottanta. Ma se in tv gli sketch satirici avevano una durata massima di una manciata di minuti, Balducci invece riesce a intrattenere il suo pubblico per quasi due ore. Con standing ovation finale, proprio come si usa per le più acclamate star.

Il copione, che prende spunto dal principio filosofico parmenideo della sovrapposizione tra vero e falso (la verità dell’essere e la falsità del divenire: un pensiero approfondito proprio in palcoscenico nel prologo pirandelliano del dottor Hinkfuss), scivola ben presto su argomenti più «orribilmente contemporanei» che riflettono le oscenità prodotte dal nostro istinto egocentrico attraverso la lente d’ingrandimento dello smartphone: per esempio, la doppia velocità con la quale spesso si ascoltano lunghi messaggi vocali e i filtri che si usano per modificare i selfie, producono effetti molto poco realistici: ed eccoli il vero e il falso che si scambiano di posto e si confondono tra di loro. Se a teatro questa dicotomia tra verità e finzione non fa certo notizia, nel nostro quotidiano diventa la tragedia di un uomo assai ridicolo. E non c’è bisogno nemmeno di scomodare Oscar Wilde (che sorrideva delle assurde mode della sua epoca), e non c’è bisogno di citare Balzac (che ne ha fatto materia della sua commedia umana) o Pasolini (che già 50 anni fa ne prevedeva le drammatiche conseguenze).

Fake mette a confronto la dura realtà di un attore che fatica a sbarcare il lunario per poter meglio abbracciare il gioco della finzione, e la semplicità (che si traduce in velocità) con la quale milioni di persone riescono, grazie alla manovra di un solo dito che scorre sullo smartphone, a creare false riproduzioni di se stessi. Se ci riuscì a fine Ottocento il giovanissimo Dorian Gray (innamorato anch’esso di un’attrice e del suo teatro!), con l’aiuto di un ritrattista e dell’affascinante partecipazione del maligno (Lord Wotton); oggi, con il solo cellulare, abbiamo in pugno sia il pittore che il diavolo. E sotto le nostre direttive. Soltanto così riusciamo a divulgare il nostro marcio quotidiano, il marcio virtuale che confonde e ci confonde nel nome di quel Lucifero accecato dalla sua stessa bramosia. E il povero attore? Per lui, in verità, c’è spazio soltanto tra i tavoli di un ristorante.

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Fake di Riccardo Pechini e Mariano Lamberti; con Lorenzo Balducci; regia di Mariano Lamberti. Al teatro Off/Off, fino al 31 dicembre.

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