Gli inferi del Capitano Achab nel “Moby Dick” di Guglielmo Ferro
Secondo l’immaginario universale, l’Inferno dovrebbe essere solo composto da fiamme e lava incandescente, come descritto dal Sommo Poeta. E se invece fosse un universo denso come l’acqua degli oceani e assumesse la forma di una balena bianca?

La leggenda di Samarcanda calzerebbe a pennello con la storia del Capitano Achab, il quale inseguendo la sua ossessione e la sua vendetta di voler uccidere Moby Dick, sfida ogni legge morale, trovando nel suo tragico destino l’unica risoluzione possibile, rimanendo vittima del suo stesso orgoglio.
Sebbene consigliato e più volte allertato dalla Coscienza e dalla Prudenza, incarnate nella figura razionale, posata e rassicurante di Starbuck, il Capitano non vuole sentire ragioni e si scontrerà lui stesso contro il volere razionale del suo Primo Ufficiale. La relazione tra Achab e Starbuck si presenta fin da subito complessa: il Sacro che cerca di proteggere il Profano dalle sue follie, in cui è Starbuck stesso a non partecipare ai rituali poco ortodossi di Achab, come a prenderne le distanze.
Una volta salpati sulla Pequod, tra scene di caccia, canti marinareschi, preghiere, nell’archetipo del viaggio regna sempre il beneficio del dubbio, dei ripensamenti e del conflitto interiore dell’uomo e il suo risentimento nei confronti di una battaglia verso qualcosa di più grande dell’esistenza stessa. Non vi è possibilità di redenzione: nel confronto tra i sentimenti razionali e irrazionali, prevale la rivalsa accecante che non conosce ragioni. Il Capitano ha negli occhi l’Inferno che non riesce a cancellare dalla sua mente. Come può un uomo, scampato alla Dama Nera una volta, avere timore dell’ira di Dio? Il Capitano stesso lancia un guanto di sfida al Creatore perché ormai non teme più alcun rivale.
Moby Dick risuona come una maledizione che si diffonde sulla terraferma e tocca le famiglie e i giovani eredi di ogni baleniere o mozzo che abbia avuto lo sfortunato incontro con la balena bianca. Il suo nome è impronunciabile, come il Macbeth per il teatro: una dannazione perpetua che non si cancella e che penetra nella carne e si impadronisce delle menti degli uomini. Achab e la sua ciurma aspettano Moby Dick come si aspetterebbe Godot: una tensione infinita, spettrale, una sospensione che diventa morbosa e che tormenta gli uomini della baleniera. La balena altri non è che un sentimento sconosciuto, nascosto tra le acque torbide degli oceani di cui ancora poco si conosce ma che molto si teme. Benché il grande mammifero, iconicamente parlando, possa sembrare innocuo, nella narrazione è una bestia inferocita che ha osato attaccare il Capitano Achab, rendendolo privo di una gamba. Moby Dick è la metafora dell’irraggiungibile, dell’impossibilità dell’uomo di spingersi verso qualcosa di incomprensibile e misterioso, come una balena bianca che si aggira nascosta nelle acque torbide dell’oceano.
Sarà proprio la sete di vendetta e l’ambizione di Achab a trascinare tutta la ciurma verso gli abissi senza fare più ritorno. Solo un superstite, l’unico sopravvissuto, racconterà l’accaduto. È l’ennesima conferma della finitezza dell’uomo di fronte alla bellezza e alla potenza irrefrenabile e incontrollata della Natura, tematica molto cara ai Romantici e agli scrittori ottocenteschi.
La scenografia è mastodontica: un piano inclinato riporta la poppa dell’imbarcazione, ma il palco offre la possibilità di scomporsi, di diventare la cabina di Achab o dei mozzi, dividendo così la scena in due ambienti separati. Sullo sfondo la proiezione di un porto, di un mare in tempesta che insegue come una macchina da presa la rotta del veliero. Una scenografia in movimento in cui ci si sente pienamente coinvolti emotivamente e parte essenziale della ciurma. La sensazione è quella di avere una prospettiva cinematografica sul vascello dove gli attori inquadrati sono disinvolti, leggeri, dinamici e spontanei.
Non ci sono musiche, ma rumori e suoni sinistri che evocano un contesto marittimo, tra cui i canti delle balene e l’inquietante richiamo della balena bianca. Le luci supportano tutta scenografia delineando i momenti di forte drammaticità e si tingono dei colori dell’acqua degli oceani, dei ghiacciai o della pioggia che imperversa durante il viaggio.
Un plauso particolare va a tutta la Compagnia Molière per gli interpreti di spicco e di perle rare che volteggiano, corrono, soffrono per due ore di spettacolo in una tensione ipnotica assoluta. Come Giulio Corso si immedesima nel personaggio riflessivo e penetrante di Starbuck, anche Moni Ovadia si indentifica con Achab: la voce rabbiosa e profonda, il passo pesante, i pensieri tormentati e profondi lo rendono più verosimile di tante rappresentazioni fotografiche o cinematografiche del personaggio romanzato.
La regia di Guglielmo Ferro è un’impresa titanica che ha saputo cogliere il cuore pulsante dell’opera dello scrittore americano Herman Melville e il dualismo che imperversa per tutta la rappresentazione: il Bene e il Male, la Ragione e l’Irrazionalità, il bianco della balena contro l’oscurità dell’oceano, la Coscienza e l’Inconscio nonché l’Ignoto.

Moby Dick vale sicuramente la pena di esser visto e rivisto più volte al Teatro Quirino e non ci sarà sazietà finché esiste la bellezza che ancora il Teatro può regalarci.
Moby Dick di Herman Melville – Adattamento Micaela Miano – Regia Guglielmo Ferro – con Moni Ovadia, Giulio Corso, Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte – Produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Quirino e Compagnia Molière – dal 01 al 13 aprile al Teatro Quirino.