The Sandman: un adattamento rischioso ma (in parte) riuscito.

Dal 5 agosto su Netflix è disponibile The Sandman, serie adattamento dell’omonimo fumetto di Neil Gaiman. L’autore ha collaborato attivamente alla realizzazione della serie tv, e il risultato si vede. The Sandman ha da subito riscosso un successo di pubblico per l’estrema fedeltà all’opera originale: i suoi ammiratori hanno così potuto ritrovare sul piccolo schermo le ambientazioni tenebrose e gli eccentrici personaggi che avevano amato sulla carta stampata. Il progetto di Netflix, però, non è il primo ad aver tentato di proporre il fumetto su un medium diverso. Come dichiarato da Gaiman in un nota intervista su Esquire:

«Per trent’anni le persone hanno provato a girare un film tratto da The Sandman: e per trent’anni hanno fallito. E onestamente mi è sempre sembrato normale: se provi a condensare tremila pagine in due ore, rischi di fare un pessimo lavoro. Noi ci siamo concentrati sulle prime quattrocento pagine del fumetto, e ne abbiamo tratto quasi dieci ore di girato. Sono veramente, ma veramente orgoglioso.»

La serie si concentra, infatti, sulla parte iniziale del fumetto riuscendo a creare un progetto di ampio respiro, fedele, curato nei dettagli, ma allo stesso tempo un’opera che deve fare i conti con la sua intrinseca crossmedialità. La storia comincia con l’imprigionamento di Morfeo (Tom Sturridge), re dei Sogni, per opera di  Roderick Burgess (Charles Dance), un mago convinto di aver finalmente imprigionato Morte e di poter ottenere così l’immortalità. La prigionia dura un secolo, il tempo necessario perché il mondo dei Sogni collassi su se stesso. Quando finalmente riesce a liberarsi, Morfeo deve raccogliere le macerie del suo regno, rimpossessarsi dei suoi strumenti magici rubati dai mortali e riportare a casa gli Incubi che, in sua assenza, hanno lasciato il loro mondo per conquistare quello della Veglia.

Questa la trama generale, tenendo conto però che essa ricopre solo la prima metà della serie. Una caratteristica fondamentale di The Sandman è infatti la ricchezza delle sottotrame che, mentre amplia il coro di voci che arricchisce una storia tanto complessa e diramata, allo stesso tempo stanca e confonde uno spettatore poco consapevole del prodotto al quale si sta approcciando.

Un episodio su tutti è “24 ore”, forse il più bello e interessante della serie. John Dee (uno straordinario e folle David Thewlis), dopo aver rubato il rubino di Morfeo, si rifugia in un diner in cui, poco a poco, lo strumento magico sprigiona la sua incontrollabile potenza. John desidera un mondo in cui vivere all’insegna della verità, senza menzogne che coprano e nascondano l’operato dell’uomo. Ben presto la tavola calda si trasforma in un luogo di rancori e paure, in cui i desideri più oscuri dei clienti si liberano fino a corromperli e portarli alla morte. L’episodio, interamente girato nel diner, è un gioiello di stile. La regia sperimenta con la fotografia e la musica, creando una sinergia tra luce e sonorità oscure che contribuiscono al crescendo di paura generato dal contesto narrativo.

Eppure, l’episodio resta uno stand alone dal momento che già nell’episodio successivo la parabola di John Dee termina (in maniera piuttosto sbrigativa) per lasciare spazio ad un nuovo arco narrativo, quello del Vortice dei Sogni, la Rose Walker interpretata da Vanesu Samunyai. La seconda parte del racconto è più distesa, meno tenebrosa della prima e si presenta allo spettatore senza un chiaro punto di raccordo con le vicende precedenti.

 Le motivazioni, ad avviso di chi scrive, non sono inerenti alla serie di per sé ma risiedono nella natura stessa del progetto. Guardare la serie, episodio dopo episodio, ricorda spaventosamente lo scorrere le dita fra le pagine del fumetto. La narrazione è strutturata per blocchi, con brevi storie autoconclusive ed altre che si ampliano a dismisura nei numeri successivi. Ed è così infatti che riescono a coesistere personaggi che vivono un solo episodio, insieme ad altri che lasciano il segno e accompagnano lo spettatore dalla prima fugace apparizione nell’episodio uno fino all’esplosivo finale di stagione.

La serie ha dunque diviso i nuovi fan, confusi dallo stile narrativo e dal ritmo lento della serie, da quelli più vecchi che hanno tanto atteso un adattamento degno dell’opera originale e che riescono ad accontentarsi anche solo della fedeltà di ambientazioni e personaggi. Su quest’ultima questione, purtroppo, c’è da aprire un’ultima parentesi: come spesso accade nelle serie Netflix, non sono mancate proteste per il colour-blind casting e il gender-swap.

Con il primo termine si intende la scelta di inserire nel cast attori neri senza considerare il contesto sociale e politico del mondo narrativo in cui si sceglie di adottarli; un esempio è Morte, interpretata da Kirby Howell-Baptiste, da molti apprezzata per la sua interpretazione convincente ma che ha comunque perso il confronto dinanzi all’iconicità del personaggio originale, uno dei più amati dai fan e per questo uno dei più rischiosi da reinterpretare. Lo stesso è avvenuto per il gender-swap di Lucifero, nella serie interpretato da un’imponente e minacciosa Gwendoline Christie capace di condensare la malvagità di un demone in un volto bianco e angelico.

La scelta di cambiare colore della pelle o genere sessuale di personaggi amati e tanto attesi dal pubblico è una lama a doppio taglio: se da un lato permette una maggiore inclusività e una più efficace rappresentazione delle minoranze, dall’altro corre il rischio di diventare oggetto di sterili discussioni che adombrano brillanti performance attoriali, capaci di portare sullo schermo l’essenza del personaggio quando non possono ricrearne la fisicità.

I dieci episodi, dunque, convincono in parte ma lasciano aperto uno spiraglio per la seconda stagione di una serie che potrebbe imparare dai propri sbagli e promettere grandi sorprese.

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