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La zona d’interesse: Glazer firma la banalità del male ad Auschwitz

Un processo di umanizzazione e normalizzazione della quotidianità durante l’orrore dell’olocausto.

La zona d’interesse (The Zone of Interest) è l’adattamento cinematografico da parte di Jonathan Glazer del romanzo di Martin Amis. Con ben cinque nomination agli Oscar 2024 il film narra l’orrore dell’olocausto proponendo un punto di vista originale. I veri protagonisti, infatti, sono visivamente assenti, mentre, divisa soltanto da un muro, la pellicola mostra la quotidianità della famiglia Höß. Dell’altra vita, se quella è vita, se ne sente solo il rumore, pesante, assordante. Una narrazione, quella di Glazer, sulla banalità del male e sull’umanizzazione di persone che il tempo e la Storia hanno reso popolarmente mostri dalla distanza salvifica.

Sandra Hüller

La pellicola si svolge all’interno della Interessengebiet, la cosiddetta, area di interesse attorno al campo di concentramento di Auschwitz. Lì vive Rudolf Höß, primo e più efficiente comandante del campo, insieme alla moglie, Hedwig, e ai loro 5 figli. La loro casa è grande e lussuosa, fornita di un giardino enorme pieno di fiori e una piscina. È frequentata da donne altolocate con cui si intrattiene Hedwig, generali e comandanti tedeschi che, seduti a tavolino, studiano scientificamente come migliorare la funzionalità del campo e, naturalmente, alcune giovani “del posto” addette alla cura e alla gestione della casa.

A dividere quella villa agiata c’è un muro. Ed è proprio al di là di quel muro che si consuma una delle peggiori pagine della storia dell’essere umano. Eppure, a pochi passi da quell’orrore, Glazer mostra la vita quotidiana di una famiglia apparentemente comune. Una famiglia che volutamente ignora quanto stia accadendo. I bambini parlano e giocano condizionati e assuefatti dalla guerra, si segue il calcio, ma soprattutto ci si concentra sui problemi quotidiani. Il principale di essi si presenta verso la metà della narrazione, quando Höß comunica alla moglie di essere stato trasferito.

Hedwig (interpretata da una più che convincente Sandra Hüller, che fa doppietta agli Oscar con Anatomia di una caduta) fiera di essere definita La regina di Auschwitz, può addirittura permettersi di passare per la persona viziata che impone al marito il lusso di rimanere nella sua casa dei sogni. Quest’ultimo invece ritrae la vittima sacrificale. La stessa vittima ad aver ricevuto una promozione come capo dei comandanti dei campi di concentramento, con delega, come se non bastasse, al loro miglioramento. Uno sforzo che un povero padre di famiglia deve fare per il benessere della stessa. E il paradosso più grande, cifra stilistica innovativa del film, è che si parli proprio di questo.

Ciò sottolinea come, all’epoca dei fatti, nomi mostruosi come lo stesso Hitler avessero questo tipo di problemi e semplicemente vivessero la loro quotidianità nei canoni della normalità. L’orgoglio è un’altra delle proprietà da attribuire alla vita della famiglia, sia da parte di Hedwig, che della madre, che di chiunque transiti nell’abitazione. Una delle ragioni per cui Hedwig non accetta il trasferimento del marito è quella di non meritarlo in quanto appartenente a una famiglia e a uno stile di vita in pieno modello dettato dal Führer. Rivendica il suo spazio vitale a est. E nel frattempo, ogni sera, le finestre della villa si colorano di grigio fumo e rosso fiamme che comunicano una cosa sola: morte.

La regia propone scelte non convenzionali che, per la maggior parte, portano a soluzioni efficaci. Come le sequenze che raccontano sogni di una delle figlie di Höß con una soluzione estetica a infrarossi vincente. Glazer propone poi un omaggio a Ingmar Bergman e il suo Sussurri e Grida, con una dissolvenza rossa indicativa e molto efficace. Quest’ultima arriva a termine di una scena dedicata alle inquadrature al dettaglio su tante tipologie di fiori nel giardino.

I fiori sono una parte importante del film. Un altro espediente efficace che potrebbe considerarsi un omaggio alle vittime, in tutta la loro splendida unicità. Ritornano anche come mezzo per indicare le severe regole tra le SS, che verranno punite qualora venissero scoperti ancora a rubare i lillà dai cespugli.

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Christian Friedel e Sandra Hüller

Scegliere di non mostrare mai direttamente la violenza, la guerra, le vittime, risulta ancora più efficace nel senso di angoscia e malessere del pubblico. Ciò si acuisce con il ruolo disturbante del sonoro di Mica Levi, candidata con merito all’Oscar. Glazer propone una narrazione asettica, volta a evitare la costruzione drammatica prevedibile per l’argomento trattato e ritrattato. Lo fa tentando di sottolineare la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Invita non soltanto a non dimenticare, ma a capire quanto una rinnovata educazione sociale, che riconosce l’umanità dei responsabili dei crimini di guerra, possa essere efficace per prevenire il ripetersi degli eventi.

La zona d’interesse (The Zone of Interest) – Sceneggiatura e regia: Jonathan Glazer – Con: Sandra Hüller e Christian Friedel – Musiche: Mica Levi – Distribuito da A24 e I wonder pictures. Dal 22 febbraio al cinema

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Elena Salvati

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