La voce rassicurante di chi sa e non pretende che il suo sapere rappresenti alcunché di definitivo coincide nel caso di Rodolfo di Giammarco con la rarissima capacità di indicare un orientamento, affinché il futuro di questo nostro teatro appaia meno tetro e nebuloso. Quello di di Giammarco è, quindi, senza ombra di dubbio un grande insegnamento di cui ritroviamo traccia anche in quest’intervista e di cui i suoi lavori di curatela, insieme all’attività pluriennale e instancabile di critico, rappresentano la prova più concreta. In definitiva, ne traiamo un ritratto della critica come di quel mezzo di conoscenza del reale che, espresso con toni sempre pacati e attenti alle trasformazioni del teatro nazionale e internazionale, ricerca nel presente – non senza una certa fatica – il futuro, l’orientamento, il senso.
Qual è stato il percorso, la traccia che TREND è riuscito a imprimere nel pubblico durante le sue ventuno edizioni?
TREND, cominciato come rassegna, è ora un festival che dura due mesi, l’unico in Italia – lo dico con un minimo di orgoglio – dedicato alle Nuove frontiere della scena britannica. Come è nato tutto? Andavo molto spesso per conto de La Repubblica a Londra nonché, ovviamente, ai due festival di Edimburgo, soprattutto il Fringe. E lì facevo incetta, diciamo così, di questa cultura britannica nuova, contemporanea in cui si presentavano ogni anno le uscite di nuovi testi e spettacoli. Ed è stato più forte di me – è stato proprio naturale! – pensare di poter essere un tramite in Italia per questa cultura della scena. Naturalmente, tutto ciò richiedeva la buona volontà di tradurre i testi, di trovare compagnie, attori e registi che se ne occupassero in palcoscenico; ed è stata questa una via che ho affrontato passo per passo, prima di tutto guardando – anche per un certo rispetto a quella letteratura d’oltremanica – alla storia di certi testi che sono stati fondamentali per la cultura gay della scena del Novecento. Ho pensato bene che si dovesse cominciare da questi, per avere un pubblico in qualche modo sensibilizzato verso alcuni titoli, che sono stati importantissimi per il trattamento di temi e di argomenti, di cronache o anche di invenzioni drammaturgiche proprio sul tema della omosessualità. Quindi, ho portato avanti un minimo retroscena e poi ho cominciato a reperire delle drammaturgie da quei luoghi che avevo la fortuna – perché era una fortuna poter prendere continuamente un aereo, mentre oggi per motivi di covid e per motivi di economie dei giornali tutto ciò non è più molto permesso – di poter frequentare. I miei giri di reperimento, di ricognizione sono continuati esattamente – guarda caso – fino a due-tre anni fa, mentre ora si sono fatalmente interrotti.
Anche attraverso TREND sono riuscito a creare canali, modalità per cui ormai conosco perfettamente il funzionamento di questa ‘fabbrica’ di drammaturgie britanniche e non ho problemi a reperire le novità. Negli anni si sono poi verificati anche dei fenomeni di contro-proposta: potevo sì proporre dei testi a delle compagnie ma poi, pian piano, sono state le stesse compagnie a dirmi, a chiedermi di poter mettere in scena questo o quell’altro spettacolo. E quindi ci siamo oggi bilanciati tra un ricevere e un valutare da parte mia la funzionalità di alcune novità da mettere in scena; io stesso ho continuato la mia opera di ‘proselitismo’ e ho sempre invitato quella compagnia o quel tale regista a interessarsi di questo o quell’altro testo che segnalavo essere importante, una volta tradotto, mettere anche in circolazione in Italia.
Naturalmente, ci sono stati dei periodi, delle piccole ère all’interno dei vent’anni e più di vita di TREND: c’è stato, ad esempio, un periodo in cui certamente non si è potuta non registrare la violenza di molti contenuti e di molti linguaggi nella drammaturgia inglese contemporanea, per poi lentamente passare a motivi più sociali, a motivi di incomprensioni generazionali fortissime o, comunque, sempre legate a una sorta di invivibilità dell’esistenza contemporanea. Abbiamo poi assistito anche ai progressi di una certa drammaturgia immaginaria non limitandoci solo alla cronaca, ma rimanendo fedeli a quello che era il termometro degli scrittori britannici che, pian piano, si legavano a motivi sempre universali ma non più legati soltanto agli avvenimenti – dove fantastici rimangono questi drammaturghi nel registrare ciò che socialmente ci disturba, che socialmente rappresenta una anomalia e a metterlo subito in scena.
In teatro e, più generale, nelle forme più alte di conoscenza possono esistere degli eredi o soltanto parricidi?
Lo spostamento che ho riscontrato di anno in anno anche nel campo delle possibilità, delle candidature al programma di TREND, questo spostamento d’asse che ho potuto concepire mi dà l’idea che ci si scrolli sempre un po’ già nella fonte primaria, cioè il campo della drammaturgia inglese – che ritengo una sorta di faro anticipatore – da una convezione e sempre si crei una ricerca. Ecco, questo ha significato per me guardare sempre con occhi nuovi anche a quegli autori che hanno i loro ‘muscoli’, la loro formazione già riconoscibile e in cui c’è sempre un’angolatura nuova da cui guardare ai problemi, alle tensioni. E, allora, risponderei che l’osservatorio che mi sono scelto non fa altro che ramificare continuamente altri punti di vista e altre registrazioni di tensioni più contemporanee possibili, più toccanti possibili. Lo dimostra, in fondo, la contenutistica della ventunesima edizione di TREND che non guarda a nessuna convezione e, soltanto in alcuni casi, si rivolge a un passato più o meno recente.
E nella critica?
Sono fortunato da questa finestra, da questa mia postazione, perché ciò che posso dire delle critiche – che, ormai, per i motivi che conosciamo di crisi dei giornali di carta, fioriscono soprattutto tra gli operatori dei siti web – è che sono molto attente, anzi che attendono con una certa cura di poter parlare di questo tramite che si è creato con la cultura odierna britannica. Curando con passione anche il giornalismo ma, evidentemente, un giornalismo che ormai è in chiara difficoltà, quello appunto dei giornali cartacei, mi accorgo che ci sono degli interventi entusiasti e sempre molto puntuali sul senso esplicito o, in qualche modo, nascosto di cui sono portatori i testi. A volte, addirittura, ritrovo una chiave che a me, che avevo letto il copione, era sfuggita, rintracciata e spiegata con una certa passione da questi ‘spettatori scriventi’. Ѐ un’angolatura fortunata la mia, perché è molto orientata e a questo punto non posso che metterli alla prova questi ‘scriventi dei siti’ con un corso culturale che è già piuttosto, anzi, molto orientato. Quindi, proponendo a TREND solo novità, non so dire in che misura e in che modo la critica in genere sia sempre ben orientata e in sintonia con le novità – o le mancate novità – del nostro teatro.
Avrebbe mai ipotizzato agli inizi della sua carriera la crisi attuale della carta stampata e in che modo l’online mette in pericolo la credibilità della critica?
Il tutto è generato da un certo numero di anni. Non sono così specialista da poter individuare con esattezza da quanto tempo si sia palesato il fenomeno ma, insomma, ora è indubbio: siamo su un Titanic che sta lentamente – e non di colpo, ma lentamente – affondando. Forse, resteranno a un certo punto delle testate cartacee per ragioni puramente ‘istituzionali’, ma credo che ormai la lettura e la scrittura si stiano spostando su tutto ciò che appartiene al web e che non ci sia più nemmeno un giovane disposto a comprare i giornali cartacei. I giovani leggono esclusivamente dal computer quelle che sono le pubblicazioni online, ed è così! Fare opera di malinconia sarebbe totalmente inutile, sarebbe passatismo. Questa è la nostra epoca, questi sono i processi e pian piano l’informazione – ancorché culturale – deve essere velocizzata, deve passare all’online e non c’è neanche da discuterne: è una cosa naturale che si deve accettare, che io accetto, tant’è che poco fa facevo riferimento a tutti quei colleghi giovani che hanno le loro rubriche online.
Digitalizzazione e postmodernità stanno trasformando in maniera definitiva e irreversibile il teatro?
Ѐ relativo, la possibilità di un’influenza in questo momento non è ancora esplicita. Ci sono, naturalmente, degli orientamenti pensati per un pubblico giovane e degli altri per la cultura ‘spettacolare’, ma resiste ancora un po’ fatalmente – e, direi, non sempre felicemente – un certo affetto per il passato che crea una disfunzione tra questa ‘avanguardia’, influenzata dal bisogno di andare avanti e dalle possibilità dei media e, invece, la messa in campo di novità o di nuove attitudini operative dei teatranti. Quest’ultima è leggermente più lenta, ma perché? Perché c’è un pubblico per così dire borghese che esprime, probabilmente, la maggior parte della quota spettatori dei teatri di riferimento, ovvero di tutti quei teatri che hanno bisogno di assicurarsi una fidelizzazione con il loro pubblico e di rendersi riconoscibili. Tra gli spettatori esistono anche quelli che non hanno un tempo culturale e che, quindi, vanno ancora avanti con le abitudini che c’erano un tempo, gli stessi che possono permettersi di spendere di più a teatro e che proprio per questo sono tenuti d’occhio dai direttori dei teatri e dalle istituzioni. Anche questo poi, lentamente, sarà un corso di eventi che si ridurrà e a intervenire – guarda caso – saranno le giovani generazioni, leggermente più mature, che vorranno quei cambiamenti che oggi sono assolutamente percepiti, ma non ancora ripagati come dovuto, in una sorta di differenza tra la cultura che vorremmo e la cultura che abbiamo.
Da Sarah Kane a Jon Fosse. La sosta presso la soglia del negativo o il suo attraversamento: cosa racconta meglio il contemporaneo?
Sarah Kane ha pagato con la vita – è molto retorico dirlo così, ma in fondo è così. L’ho conosciuta e frequentata per quel poco che è stata in Italia: il suo era veramente un amore per il prossimo che, paradossalmente, esprimeva con la violenza di una certa parte della scrittura, ma era un amore sia per i temi sociali sia, a un certo punto, per la vita stessa, così forte che qualcosa le si è strappato e non ha resistito, ed è scomparsa. Ci ha lasciato più o meno cinque testi, ma nella scrittura era esemplare nell’andare oltre, nel cercare di creare una drammaturgia a volte piena di orrore, ma di un orrore dovuto alla mancanza di amore che riscontrava nel mondo, e per questo ha pagato come un qualsiasi eroe che sta in trincea e va all’assalto delle più stupide convenzioni. Altrettanto, ho conosciuto Jon Fosse ma lui è un autore più strategico, tanto che poi ha finito per non amare più il teatro in maniera conseguente e costante. L’ho conosciuto negli anni in cui c’era una sua produzione teatrale, anni in cui veramente riformava il teatro: riformava il linguaggio, l’interlocutorietà tra vivi, a volte, e morti e questo senza guardarsi indietro, perché significava guardarsi in avanti ma con fantasmi vivi che fossero esemplari e di ammonimento per noi che viviamo. Ecco, Fosse aveva questa compresenza davanti a sé di figure che ha spesso rappresentato ed era anche uno scrittore che, a differenza di Sarah Kane, poteva benissimo essere artista della pagina letteraria; dopodiché credo abbia ceduto il testimone ad altre realtà generazionalmente più giovani del suo paese, ma io ne ho vissuto, cercando anche lì di farmi tramite dal punto di vista editoriale, gli anni in cui era più accanito nel riportare in scena ciò che viviamo non vedendolo.
Come si concluderà questa XXI edizione di TREND?
Cercherò di essere sintetico. Il 22 e 23 novembre “Quentin Crisp: Naked Hoped” con Luca Toracca sarà forse l’unico spettacolo che si guarda indietro tra quelli presenti in quest’edizione di TREND che si rivolge solo all’oggi e, casomai, a un minimo di terribile domani. Si guarda indietro perché la “Naked Hoped” di Mark Farrelly – questa speranza nuda – è riferita a Quentin Crisp, un’icona gay morta novantunenne: un uomo solo, a New York, un inglese che è finito lì e che dava vita a degli one man show bellissimi (un po’ in parallelo con il nostro Paolo Paoli). Poi dal 25 al 27 novembre abbiamo una grande autrice inglese, Claire Dowie, con “See Primark and Die!” e il 6 e 7 dicembre “Angel of Kobane” di Harry Naylor con Anna Della Rosa ci porta proprio nell’oggi, perché in scena c’è l’assillo tremendo di una storia che riguarda i rapporti tragici tra le donne e l’Isis – le donne hanno, infatti, finalmente preso piede come protagoniste nella drammaturgia inglese; mentre si finisce con “The Ducks” di Michael McLean con due uomini che hanno uno stranissimo rapporto, civilissimo, forse indicibile fra loro. Ma, insomma, l’indicibile è qualche cosa che gli inglesi sanno trattare estremamente bene.