L’ultima emozione prima del “coprifuoco” al Basilica: Herlitzka legge Lucrezio

Una luce fioca gli illumina il volto esacerbandone le luci e le ombre, siede dapprima immobile l’attore rivolto al leggio che, solitario, occupa il centro del proscenio.

Ad abitare le mura petrose del Teatro Basilica di Roma dal 23 al 25 ottobre è “De rerum natura” di Lucrezio che, reading di Roberto Herlitzka e diretta espressione di un personale quanto accurato intervento di traduzione.

“O degli Eneadi madre, amor che queti, volglia umana e divina, Venere alma, perché tu dài sotto i vaghi pianeti”, una mimica solenne accompagna i primi versi del poema didascalico che, in esametri all’origine, si esprime ora in versi e terzine dantesche: le mani nodose gesticolano come nell’atto di dirigerne il suono direzionando il timbro su pause e innalzamenti vocali.

Una voce rauca, onomatopeica, sembra assorbire su di sé la gravità del testo, le sue intonazioni didascaliche: se per Lucrezio la difficoltà del messaggio testuale si alleggerisce nel ricorso a un soave mezzo poetico, cifra personalissima dell’attore sembra essere la carica onomatopeica del discorso, la sua musicalità, il suo intenso incedere appoggiandosi a una precisa scelta di allitterazioni e consonanze.

Laddove il movimento delle mani è assunto come strumento per cadenzare il ritmo del parlato, il discorso si fa immaginifico permettendo all’ascoltatore l’immediata evocazione delle figure e dei contesti narrati: dall’iniziale Inno a Venere, il discorso si sposta verso l’idea di una Natura che non disfa le cose nel nulla ma risolve ogni corpo nei suoi elementi”.

È avvicinando le mani al volto che l’attore sembra struggersi e perdersi nella poesia da egli stesso declamata, abbandonandosi a un tono visionario che rimanda alla fulgida concretezza delle immagini: in un appena accennato gioco di luci la sua espressione è ora cupa, ora concitata, ora esacerbata dal movimento degli occhi e del capo.

“A che terrem, che più dei sensi cerna il vero e il falso? E perché mai si volle che il meglio veggia, uom che non discerna bruciar di fiamma l’universo vuoto d’altro cui nebbia di visione alterna lo fuoco asconda e faccia il resto noto?”,rapportandosi al poema lucreziano come un’opera totale dentro cui c’è tutto, il bene e il male, il suo interprete si fa portavoce di un altrove che, nella teorizzazione e acquisizione di sempre nuovi universi, ci riporta in modo incontrovertibile alla pericolosa e fascinosa spinta alla conoscenza che permea e sospinge l’uomo prima e ora, nella realtà attuale.