Una ferita chiusa con lo zucchero
Si sa. Quella della commedia è un’arte a largo spettro, che va dalle questioni del ritmo e della sorpresa alla varia gradazione degli umori evocati, dal comico esilarante, alla crudeltà, all’agrodolce. Sempre in leggerezza ma a volte aprendo squarci da subito velare. Un’arte praticata con successo per anni – a cinema e teatro – dall’americano Neil Simon, morto poco più che novantenne nel 2018.
E proprio per il dominio che ha del genere, neanche per Capitolo due (Roma, Vascello, 12-17.11.2024) tradotto e portato in scena da Massimiliano Civica, parlerei di tragicommedia. La cifra è semmai una sottile e beffarda, crudele ma non troppo, ironia, che oscilla tra la malinconia keatoniana, il nonsense leggero da clownerie beckettiana, e il buffo quotidiano di una vita inquadrata per stereotipi, rassicuranti stereotipi adatti a vellicare, a teatro e al cinema, un pubblico che, pur sentendosi intelligente, si può specchiare nel rassicurante dizionario di situazioni, squadernate con l’autoironia della standup comedy.
Certo, tra il romantico lieto fine da film americano (l’amore trionfa), e la conferma del medio quotidiano su cui la felicità si erge a consolatoria eccezione… come in certe geometrie settecentesche, tra le pieghe qualche leggero veleno rimane depositato, ad intossicarci, ma senza troppo insistere, senza mettere il dito nella piaga.
La trama?
Come nei migliori canovacci, si intrecciano due storie parallele – come nel Flauto magico di Mozart. Tamino e Papageno, il sublime romantico in versione cinematografica, e il lato materialistico, d’en bas.
George Schneider, scrittore vedovo inconsolabile da anni della moglie Barbara, e Jennie, attrice di recente divorziata, e dall’amor delusa, si incontrano casualmente grazie al fratello di lui, Leo, e all’amica di lei, Faye. E proprio perché totalmente alieni dal cercare qualcosa, e diffidenti, proprio per questo subito si piacciono, e si innamorano, annusando una affinità elettiva fondata sul dolore. E contro ogni consiglio frenante degli altri, subito si sposano.
E poi? Vedremo…
Intanto però, in parallelo, abbiamo il basso quotidiano, materiale, di Leo e Faye, entrambi in crisi coi coniugi, che tessono una relazione carnalmente passionale, di cui accettano i limiti.
Lei vorrebbe amore, ma sia pur delusa accetta il limite, e lui le snocciola il decalogo del ipocrita razionalizzatore della propria frustrazione. Deve andare a donne, per eccitarsi, ma ama la moglie, benché la trovi anche soffocante, e ne sia minacciato di abbandono.
Con Faye è crudele nel imporre la sua regola, usa la propria fasulla forza, ma con George esibisce, frustrazione, debolezza, richiesta d’aiuto, sia pure con una postura comica.
E George, tanto aiutato da lui, che del lutto fraterno si prende cura (e qui c’è una sottile veloce crudeltà del drammaturgo, un lampo subito rientrato nel comico seguente dell’elenco di Leo), George quasi non lo ascolta, tutto preso dalla profondità egoistica dell’anima propria.
LEO Volevo parlarti – GEORGE (Impaziente) Leo! Sto bene!
LEO Volevo parlare di me… Marilyn vuole lasciarmi – GEORGE Perché?
LEO Ha una lista. Non le piace il mio stile di vita, non le piacciono
gli orari che tengo, i miei affari, i miei amici, la mia indifferenza, il mio
atteggiamento, la mia freddezza e il nostro matrimonio […]
GEORGE Dai, Leo. Hai un buon matrimonio, lo so – LEO Davvero? Ti inviterò
a dormire nella nostra camera da letto una notte, puoi ascoltare.
Te lo dico, George. Il problema del matrimonio è che è implacabile.
Ogni mattina quando ti svegli, è ancora lì. Se solo potessi ottenere
un periodo di aspettativa ogni tanto […] Tu e Barbara […] avevate
un vero legame di follia tra voi… Marilyn non ha pazzie.
Nessuna fantasia. Nessun territorio inesplorato da esplorare.
Sto bene. Hai un buon matrimonio.
George è sordo all’altro. Astratto. E’ tutto preso da se stesso. Anche troppo. Fino ad essere fuori dal mondo, dove sarà compito di Jennie farlo riatterrare. Ma l’autore glissa, e glissa Leo, virando al comico Ti inviterò a dormire nella nostra camera da letto pur non rinunciando al lamento sulla moglie priva di fantasia.
In generale tutto l’universo della frustrazione viene girato al comico da una serie di freddure. Così anche Jennie, prima di innamorarsi di George.
Se un altro uomo mi accoglie sulla porta con la camicia di seta sbottonata fino
all’ombelico abbronzato, i peli del petto pettinati con cura e con più gioielli al
collo di me, diventerò casta… […] A volte penso: è fisicamente possibile che
se non fai sesso per molto, molto tempo, tu possa tornare vergine?
Solo un aspetto rischia veramente di esorbitare dal registro della commedia, di virare al dramma.
George si sposa subito. Ma perché? Forse per non fuggire? Di che ha paura?
Il rapporto tra lui e Jennie sembra deteriorarsi subito dopo la luna di miele.
I due sono irritabili. Calano le freddure, e il tono è quello dello scontro dolente.
Ok. Ma dura un attimo. Indagano sui reciproci partner di prima.
Escono paure.
Poi lei, con un bel monologo tra il femminista e il femminile, lo accusa di non lottare per il loro amore come fa lei, che non demorderà.
Lui va a Los Angeles per una pausa di riflessione, conscio di non riuscire a superare il fantasma di Barbara, la prima moglie. Ha paura di farle un torto dimenticandola.
Ma dura un attimo. George cambia idea già all’aereoporto di Los Angeles, senza uscirne, perché ha capito di aver soltanto paura della felicità.
Mi sono detto, cosa potrebbe se tornassi a New York… da Jennie…
E ricominciassi la mia vita da capo?” E la risposta era così semplice…
Sarei felice! Ho guardato la felicità in faccia, e l’ho abbracciata.
Quanti film americani abbiamo visto, sulla paura dell’amore, con pentimenti e romantiche corse finali. E forse l’archetipo era qui, in questa agrodolce commedia del 1977.
Anche se qui c’è un piccolo di più poetico, antico, nel rimarcare, di fronte a paure e nevrosi, era così semplice…
Detto questo, mentre nulla di male si può dire dell’universo della commedia, a patto di non aspettarsi troppo, se non conferma mesta o esilarante della realtà, e pur renitendo un po’ ad amare però lo zucchero romantico che rapidamente vuole occultare la ferita
resta da dire della sapienza della regia.
Civica non può contraddire il testo, ma sceglie una ritmica che – benché sfiancante (due ore di spettacolo) – serve a dilatare i pori del sottotesto, ad insinuare nella banalità del reale uno specchio a doppia lama. Fa infatti parlare i protagonisti spesso seduti in parallelo, talora addirittura in ambienti separati ma contigui (i due divani accostati delle telefonate), spesso senza guardarsi, con un tono rallentato e sdoppiato, perplesso.
E’ come se non fossero loro a parlare, ma parlassero di sé essendo altro e altrove, come svuotati, attoniti, anche quando la postura è la comicità assurda del micro nonsense.
E dilata le pause, facendone un parlare di silenzi, dove il silenzio diventa un gioco di specchi di altro, uno squarcio su una interiorità da non nominare.
E allora aleggia il sottile disagio di una teoria di burattini dell’assurdo quotidiano, agiti dalle convenzioni, ma derealizzati, spettatori attoniti.
Questo, unito alla leggerezza costante del buffo delle freddure, manda il pubblico in delirio, anche se temo più identificativo che pensante. Il pubblico ride spesso, e alla fine l’applauso è lungo e caloroso.
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Capitolo due, di Neil Simon – regia Massimiliano Civica – con: Maria Vittoria Argenti (Jennie), Ilaria Martinelli (Faye), Aldo Ottobrino (George), Francesco Rotelli (Leo) – scene di: Luca Baldini – costumi di: Daniela Salernitano – luci di Gianni Staropoli – produzione Teatro Metastasio di Prato in corealizzazione con Romaeuropa Festival e La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello – Roma, Teatro Vascello 12-17 novembre 2024
Tournée: 19/24 novembre 2024 – Teatro Gobetti, Torino; 16/19 gennaio 2025 – Teatro Modena, Genova; 21/26 gennaio 2025 – Teatro Fabbricone, Prato; 30 gennaio/2 febbraio 2025 – Emilia Romagna Teatro; 1/6 aprile 2025 – Teatro Strehler, Milano