Il testo di Ottavia Bianchi in scena al teatro Manzoni per la regia di Giorgio Latini
Ottavia Bianchi porta in scena una sua commedia che sin dal titolo appare allegra e spiritosa. Soprattutto spiritosa! E in Moira, casa, famiglia e spiriti i fantasmi ci sono davvero. Moira non è sposata, non ha figli, s’incontra saltuariamente con una vicina, lavora come infermiera, spesso anche con turni di notte, e, quando rientra a casa, ad aspettarla ci sono quattro fantasmi, tra cui suo padre Alfredo. Sono anime rimaste sospese tra la terra e l’Aldilà, e lei è l’unica persona che può vederle, ma pare possa vederle e sentirle solo in quell’ambiente. Altrove l’incantesimo svanirebbe. Ne nascono situazioni leggere e divertenti, in cui vagamente riecheggia l’atmosfera giocosa di quei «Fantasmi a Roma» che, in un famoso film, dimoravano nel palazzo avito del Principe Annibale di Roviano. Invece sull’appartamento di Moira pende una sentenza di sfratto, che la costringe a una perenne angoscia, anche quando l’ufficiale giudiziario incaricato del caso le dichiara il suo amore elencandole i tanti sotterfugi burocratici che ha escogitato per rimandare l’esecuzione e per incontrarla sempre più spesso.
Gli ectoplasmi che s’aggirano nella grande sala di Moira, una specie di soffitta, sono anime tranquille, affettuose, con caratteri ben delineati, allegri e scherzosi. Seguendo la distribuzione che Eduardo fece per i suoi fantasmi partenopei, si può rintracciare lo spirito saggio, lo spirito gaudente, lo spirito buono e lo spirito devoto. Ciascuno è in attesa di quel che le credenze popolari chiamano giudizio, ma in realtà costoro aspettano che il tempo passi per ottenere il permesso di abbandonare definitivamente il mondo degli umani. La loro attesa, tuttavia, rende invivibile l’esistenza di Moira che mai vorrebbe staccarsi dagli allegri coinquilini, e soprattutto da suo padre che le sta risistemando i libri rotti e che non le è stato sempre accanto. «Non hai fatto un solo giorno di vita vera», le rimprovera l’anima del genitore, ma lei, ormai quarantenne, ancora ama addormentarsi ascoltando la favola che lui le racconta. L’autrice sottolinea, con delicata tenerezza, quanto il tempo sia un concetto estremamente soggettivo: l’attesa per i defunti diventa una speranza, mentre per Moira, più passano i giorni, più le prospettive di una vera famiglia si assottigliano. Tutti vorrebbero vederla ammogliata e felice, ma lei, per fuggire le brutture del mondo, si ostina a cercar riparo sotto l’ala della loro protezione.
Il testo della Bianchi, pur se ispirato a situazioni risapute, esprime bene il lato originale ed è ben congeniato: la protagonista che in ospedale si prende cura dei malati, a casa accudisce i suoi fantasmi che ricambiano le attenzioni con affetto e premure. Tutti i personaggi esprimono un loro personale sentimento; anche l’Ufficiale giudiziario, benché con parole rubate (ma dichiarate) ora al Tasso, ora a Montale, e infine a Leopardi. Scrive poesie per diletto, ma si chiama Mario Rossi, un nome troppo comune che gli impedisce di diventare un Salvatore Quasimodo.
Tuttavia uno spettacolo teatrale non è solo un testo scritto, ma è anche una realizzazione. E la regia, purtroppo, è ben lontana dall’esaltare la vivace scrittura della Bianchi. A cominciare da come sono sistemati gli ingombri allineati sul fondo e sui lati: in questo modo il centro del palcoscenico resta quasi sempre vuoto perché gli attori (anche cinque o sei contemporaneamente) sono costretti a disporsi in fila, in fondo alla scena, come in una parata militare, tutti rivolti verso il pubblico. Il lungo divano sotto la finestra accoglie, più d’una volta, l’intera schiera per formare il gruppo di famiglia per la fotografia di Natale. Ognuno è sempre troppo condizionato dal mostrare il proprio viso al pubblico (eccetto la Santilli). Il proscenio non viene mai sfruttato e i movimenti si svolgono solo da destra a sinistra e viceversa e mai in avanti. Questi gli appunti più eclatanti, ma anche quando qualcuno grida «Che c’è in quella scatola?», «Libri rilegati», è la risposta decisa; ma poi dal cartone escono soltanto brossure in edizioni economiche (di libri rilegati neanche uno). È vero, il teatro è finzione, ma non bisogna confondere la finzione per superficialità. Sarebbe altresì opportuno chiedere un consiglio a un esperto su come ricostruire il dorso di un volume!
Perché – mi chiedo con la stessa angoscia con cui Moira aspetta lo sfratto esecutivo – affrontare un lavoro di regia con tanto innocente impaccio? Perché non regolare bene i volumi dei microfoni che deformano le voci? Per ascoltare gli attori al naturale mi sono dovuto trasferire in seconda fila! Perché non si vuol comprendere che il microfono è fastidioso e amplifica più i difetti (compreso il rumore dei tacchi sul palco) che le sfumature? Fin qui le responsabilità della regia, perché tutto quel che accade in palcoscenico (compresa l’amplificazione) è, e deve rimanere, sotto il severo controllo del regista. Nemmeno mancano le solite insubordinazioni della produzione: non esiste una locandina che dia risalto all’attore. E perché sul programma stagionale del teatro e sui siti dove è pubblicizzato lo spettacolo ci sono soltanto i nomi di quattro interpreti e non di tutti e sette? Perché, per la produzione, i nomi di Andrea Lolli, Sebastiano Colla e Giorgio Latini (attore), non hanno lo stesso valore di quelli di Ottavia Bianchi, Giulia Santilli, Beatrice Gattai e Patrizia Ciabatta? Dispiace dover sottolineare queste chiare inadempienze, ma soltanto scrivendole forse qualcuno potrà porre rimedio e attenzione. Anche se, a mio avviso, chi accetta di subire un tale dispotico atteggiamento da parte dei produttori (e talvolta anche dei distributori), è il maggior responsabile di quel che avviene oggi in quasi tutti i teatri d’Italia pubblici e privati. Se gli attori avessero il coraggio di rifiutarsi di andare in scena quando il loro nome non è in cartellone, forse le cose cambierebbero. La nomenclatura in locandina è un diritto e dovrebbero farla rispettare. Ma gli attori, pur di calcare il palcoscenico, vanno in scena, oltre che nascosti dall’anonimato, anche con paghe al di sotto del minimo sindacale, e non dovrebbero; gli attori vanno in scena anche senza contratto, e non dovrebbero; gli attori vanno in scena anche senza assicurazione; gli attori vanno in scena anche se il produttore s’immischia di faccende registiche che non dovrebbero toccarlo; gli attori vanno in scena anche per una o due repliche, quando per un allestimento occorre un periodo di prove molto più lungo, e spesso per le prove gli attori non sono neanche pagati. Finché gli attori continueranno a inchinarsi di fronte alla protervia e all’arroganza delle produzioni rimarranno sempre schiavi della loro stessa indifferenza. Questo è il male.
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Moira, casa, famiglia e spiriti, di Ottavia Bianchi, con Ottavia Bianchi (Moira), Sebastiano Colla (Mario Rossi), Beatrice Gattai (Aldina), Andrea Lolli (Sor Alfredo, spirito saggio), Giulia Santilli (Angela, spirito gaudente), Giorgio Latini (Biagio, spirito buono), Patrizia Ciabatta (Mina, spirito devoto). Regia, Giorgio Latini. Teatro Manzoni, fino al 19 novembre
Foto di copertina: Ottavia Bianchi e Sebastiano Colla ©Marco Bellucci