«Qui rido io» strizza troppo l’occhio al pettegolezzo

PRIMA PARTE

Domenica 21 maggio RaiUno ha trasmesso, in prima serata, Qui rido io, film di Mario Martone del 2021 su Eduardo Scarpetta. All’epoca, quando uscì nelle sale, qualcuno urlò al capolavoro; unanimi i giudizi positivi sia per l’autore e regista, sia per l’attore protagonista e per l’intero cast. Ancora oggi, non posso che associarmi al coro di chi lo aveva lodato, tuttavia con sempre maggior parsimonia. Non si tratta, infatti, di un soggetto frutto della fantasia, ma, abbracciando il genere biografico, rientra nella condizione di film storico, e pertanto andrebbe riesaminato al setaccio con l’attenzione che merita la materia. Non fosse altro per il rispetto del personaggio risolutore della questione giudiziaria che coinvolse Scarpetta, sulla quale, nella seconda parte, si concentra la trama: quel Benedetto Croce che fece della storia argomento fondamentale dei suoi eruditi studi.

Premetto che quando la pellicola uscì nelle sale cinematografiche, già evidenziai l’ombra commerciale che incombeva sulla realizzazione dell’opera: il ritratto che Martone fa dello Scarpetta soddisfa certamente i tanti palati rozzi di chi s’ingozza ogni giorno di quella scialba cronaca rosa che riempie le pagine d’informazione sempre più scadente; ergo, è ovvio che l’entusiasmo di costoro si ravvivi di fronte a certi affari privati che fino a qualche anno fa regalavano brividi esclusivamente alle portinaie, poi alle sciampiste, oggi a tutti coloro che navigano per social in cerca di «cofecchie», direbbe Totò. E che Martone abbia voluto costruire un film, appunto, sulle «cofecchie» più che sulla biografia artistica di un uomo di teatro, lo dimostra l’incongruenza storica di alcune scene.

L’intervento di Croce nella causa tra Gabriele D’Annunzio e Eduardo Scarpetta apre il complicato paragrafo delle discordanze delle date. Da questo episodio sappiamo con certezza che la sua relazione giudiziaria (redatta con il senatore Giorgio Arcoleo) è dell’ottobre del 1907; sappiamo altresì che il processo fu avviato nel dicembre 1904 e che la sentenza definitiva è del gennaio 1908. Dunque si presume che la sceneggiatura di Martone cominci, quando l’affaire dannunziana era ancora lontana, in un anno compreso tra il principio del 1902 e la metà del 1903. Sin dall’apertura vediamo, però, un giovanissimo Eduardo De Filippo che già recita, legge e scrive, ma tutto ciò è improbabile perché Eduardo è nato il 24 maggio 1900; dunque, all’inizio del film avrebbe poco più di due anni. Nella parte di Peppiniello, il bambino di 8 anni di «Miseria e nobiltà», si riconosce prima Titina e poi lo stesso Eduardo, ma quest’ultimo incarnò quel ruolo non prima del 1910 (forse 1911), cioè due o tre anni dopo la fine del processo D’Annunzio-Scarpetta; invece, nel periodo della causa, Martone addirittura veste il più piccolo dei De Filippo con quei panni, e Peppino fu Peppiniello soltanto nel 1913 (a dieci anni), quando Scarpetta già s’era ritirato dalle scene e Vincenzo (figlio legittimo del patriarca) aveva preso il suo posto. Ma la più grossa imprecisione riguarda proprio Peppino, il quale, nato il 24 agosto 1903, fu affidato (come pure si vede) alle cure di una balia in campagna per ben cinque anni. Tornò ad abitare a Napoli, con la mamma e i fratelli, nel 1908, dopo la sentenza definitiva che assolse Scarpetta. Invece, per Martone, quando si svolge il processo (1904-1908), Peppino già corre per il palcoscenico e sembra avere un’età molto maggiore dell’effettiva. Insomma, nella realtà, quando scoppia il caso del Figlio di Iorio, Peppino è ancora in campagna dalla balia e Eduardo ha appena mosso i primi passi sul palcoscenico del Valle di Roma (anzi, fu portato in braccio!), e non può certamente ricopiare i testi del padre naturale. Altro particolare che non corrisponde al vero riguarda il maialino con cui giocava Peppino in campagna e che invece Martone trasforma, non si sa per quale motivo, in una capretta.

Eduardo Scarpetta jr. (nel film, Vincenzo Scarpetta) e Alessandro Manna (Eduardo De Filippo) © ph Mario Spada

Per quanto riguarda le musiche d’accompagnamento, anch’esse fuori dal contesto temporale, il discorso è diverso. Si capisce che il commento musicale spazia dall’inizio del ‘900 fino agli anni Settanta: è una scelta ben precisa quella di uscire dal tempo. Piuttosto la selezione è molto ardita: si tratta spesso di brani eccessivamente famosi che potrebbero indurre lo spettatore a seguire la canzone distraendosi dal film. Sono poesie struggenti, musicate con note che ubriacano di malinconie, di passioni, di dolcezze ed è difficile non essere risucchiati dal trasporto canoro di versi assai conosciuti. Si odono i pezzi classici della canzone partenopea: Voce ‘e notte di Nicolardi (del 1904), ma anche brani di epoca molto più recente, come Indifferentemente del 1963, e Carmela di Salvatore Palomba che è, addirittura, del 1976. Anche le voci straordinarie di Sergio Bruni e Roberto Murolo incantano, malgrado all’epoca della causa giudiziaria non fossero ancora nati.

Torniamo, però, al nocciolo della questione. Pur appartenendo al genere storico e restando un film ben curato a livello artistico, Qui rido io strizza troppo l’occhio al mero pettegolezzo. Del protagonista si è preferito ispezionare esclusivamente il torbido, il pruriginoso, il lato oggi più facilmente vendibile al botteghino, soffocando la luce di una ribalta che invece fu molto illuminata. Chi non conosce l’opera di Eduardo Scarpetta, e soprattutto la trasformazione che egli attuò al repertorio napoletano del teatro comico popolare, dopo la visione, ne trarrà certamente un’idea confusa del commediografo partenopeo.

Foto a sin: Scarpetta con Luisa De Filippo e suoi figli, Eduardo, Peppino e Titina. Foto a des: Eduardo Scarpetta

La morbosità dell’argomento riproduttivo ha tenuto ben distante la curiosità sullo spirito popolare artistico e letterario dell’uomo. Anche la scena iniziale di Scarpetta che in camerino addenta una pizza, sottolineata da alcuni critici «come simbolo della semplicità geniale di cui si nutre l’arte popolare a Napoli», assume un valore tradizionale soltanto se rientra nell’analisi della totale dedizione di un artista per il palcoscenico; ma se il frugale e folcloristico pasto fa da contorno a una carrellata di notizie a sfondo sessuale, allora il senso cambia e il gesto potrebbe essere confuso per sbrigativa superficialità di chi abbia necessità di recuperare il tempo speso negli anfratti del teatro per aver soddisfatto le sue smanie focose.

fine prima parte, segue (1/2)

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Qui rido io, un film di Mario Martone del 2021; con Toni Servillo (Eduardo Scarpetta), Maria Nazionale (Rosa De Filippo), Cristiana Dell’Anna (Luisa De Filippo), Eduardo Scarpetta (Vincenzo Scarpetta), Roberto De Francesco (Salvatore Di Giacomo), Lino Musella (Benedetto Croce), Paolo Pierobon (Gabriele D’Annunzio), Giovanni Mauriello (Mirone), Chiara Baffi (Nennella De Filippo), Roberto Caccioppoli (Domenico “Mimì” Scarpetta), Gigio Morra (presidente del tribunale), Gianfelice Imparato (Gennaro Pantalena), Iaia Forte (Rosa Gagliardi), Greta Esposito (Maria Scarpetta), Alessandro Manna (Eduardo De Filippo), Marzia Onorato (Titina De Filippo), Salvatore Battista (Peppino De Filippo), Paolo Aguzzi (Ernesto Murolo), Tommaso Bianco (zio Pasqualino), Benedetto Casillo (Luca), Giovanni Ludeno (Ferdinando Russo), Giuseppe Brunetti (Libero Bovio), Nello Mascia (giudice istruttore). Soggetto e sceneggiatura, Mario Martone, Ippolita Di Majo. Costumi, Ursula Patzak. Regia di Mario Martone. RaiUno, il 21 maggio 2023

Foto in evidenza: «Qui rido io» di Mario Martone © ph Mario Spada