Un regista scomodo: Zhang Yimou

di Riccardo Bramante

Ha compiuto 70 anni lo scorso mese di aprile Zhang Yimou, sceneggiatore e produttore televisivo ma soprattutto noto come il più importante regista cinematografico della Cina.

E’ stata difficile la carriera di Zhang, soprattutto agli inizi con un padre che era ufficiale del Kuomintang, l’armata nazionalista di Chiang Kai-shek, un fratello fuggito a Taiwan e un altro accusato di spionaggio dal regime comunista di MaoTse-thung. Nel 1966, in piena Rivoluzione culturale, lui stesso viene cacciato dalla scuola che frequentava e mandato a lavorare nei campi.

Al termine di questo periodo oscuro riesce (nemmeno lui sa come) ad entrare all’Accademia Nazionale del Cinema riaperta dopo la Rivoluzione Culturale e nel 1987 dirige il suo primo lungometraggio “Sorgo rosso”, storia delle vessazioni subite da una giovane ragazza di campagna, che lo fa conoscere anche fuori della Cina. Il film, che è anche l’inizio del sodalizio artistico ed affettivo con Gong Li in quel momento l’attrice più nota del mondo orientale, vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e viene addirittura selezionato per una “nomination” all’Oscar.

A “Sorgo rosso” segue il film “Lanterne rosse” del 1991 che lo fa definitivamente conoscere a livello internazionale conquistando il Leone d’Argento al Festival di Venezia e vincendo l’anno successivo con “La storia di Qin Ju”. Entrambi i film affrontano il tema dell’oppressione delle donne in una società patriarcale negli anni Venti il primo con la storia di una ragazza costretta a un matrimonio di interesse, e durante l’epoca contemporanea l’altro come aperta denuncia di una contadina che cerca giustizia per il marito vessato dal capovillaggio comunista.

Ancora a Venezia Zhang ottiene il Leone d’Oro nel 1999 con il film “Non uno di meno”, storia di una ragazza che si improvvisa educatrice di una scolaresca nella Cina rurale. E’ un lavoro che risente chiaramente l’influenza del neorealismo italiano come pure i successivi “La strada verso casa” e “La locanda della felicità”.

Con l’inizio del nuovo millennio Zhang si impegna in progetti più ambiziosi dirigendo film di arti marziali, genere definito in Cina “wuxia”, in cui si narrano le avventure di eroi della antica tradizione cinese.

Nasce così il visionario “Hero”, il lungometraggio finora più costoso nella storia della cinematografia orientale con coreografie ed effetti speciali di ultima generazione che fanno di Zhang lo Steven Spielberg cinese.

“Hero” si ispira alla storia vera, quando nel 221 A.C. Ying Zhang, re dello stato Qin (si pronuncia “cin”) riunifica, attraverso guerre sanguinose, tutti i territori fino ad allora divisi tra sette Signori della Guerra e fonda, in definitiva, la nazione cinese. Anche al di là del significato storico il film, per i paesaggi e le meravigliose scenografie della Città Proibita, rivaleggia quanto a bellezza con “L’ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci, tanto da conquistare il regista americano Quentin Tarantino che convinse la Casa di produzione Miramax (proprio quella al cui comando era l’oggi tanto vituperato Harvey Weinstein) a distribuirlo anche negli USA dove, nel 1994, scalò la top-ten nonostante il mantenimento dei dialoghi originali in cinese con sottotitoli inglesi.

Stimolato dal successo, Zhang diresse nel 2006 una trilogia che comprende lo spettacolare “La foresta dei pugnali volanti” e il cupo “La città proibita” che, però, non riscosse eguale successo.

E’ infatti con “Hero” che Zhang conclude la sua parabola da cineasta criticato e censurato a star del regime che anzi gli affida la regia di documentari finalizzati a promuovere la candidatura di Pechino alle XXIX Olimpiadi del 2008, salvo poi multarlo nel 2014 di ben 1,2 milioni di dollari per aver avuto tre figli, infrangendo così la legge del “figlio unico” allora vigente.