“Stremate e…Beate?” chiude in bellezza al Golden

Il dopo morte, quel momento che tutti prima o poi attraverseremo e che ogni cultura immagina a modo suo è il luogo dove si svolge la vicenda di Mirella, Elvira e Marisa, ritrovate in Stremate e… Beate? dopo la tragica morte alla fine della prima parte della loro storia.
Elda Alvigini, Beatrice Fazi e Giulia Ricciardi riportano in scena i loro personaggi in un contesto del tutto nuovo.


Anzi, una cornice, visto che arrivano nella sala d’attesa del Purgatorio, diviso come pensato da Dante ma arricchita da un frigo, un microonde e una lavatrice. Perché? Perché l’Aldilà è pieno di sale d’attesa diversamente costruite e a loro ne è stata destinata una “da donne” spiega Virgilio, proiettato in video e interpretato da Patrizio Cigliano, regista dello spettacolo.
Un Virgilio vestito da business man, con tanto di auricolare e solo un cerchietto di foglie d’alloro a ricordarci la sua immagine più classica.
Ad ogni protagonista sono abbinati due Peccati Capitali, l’unico che non si affronta è l’avarizia, che devono superare per evitare di far concludere il loro viaggio nel peggiore dei tre Regni oltremondani, l’Inferno.

Classico e moderno si mischiano in uno spettacolo che fa morire dal ridere e un attimo dopo portare alla riflessione sui temi più caldi della nostra contemporaneità, a cominciare dalla condizione femminile.
L’Aldilà attrezzato alle ultime tecnologie, tra videocall e voci registrate, non toglie nulla all’idea tipica del post morte come momento in cui si viene giudicati per quel che si è stati in vita, e seppur la descrizione dei luoghi e la divisione dei peccati viene improntata sulla dottrina Cattolica c’è ampio spazio per i riferimenti ad altre Fedi e ad altre idee del “dopo”. 

La costruzione del teatro Golden, con i posti disposti a ferro di cavallo su tre lati e il palco centrale a livello terra unisce la vicinanza fisica alle interpreti a quella emotiva, impossibile da non provare, soprattutto quando si parla di vizi e peccati tanto umani. 
Tutto si svolge dopo la morte ma racconta di vita, mettendo in mezzo anche personaggi dei nostri giorni di cui si immagina il futuro, terreno o ultraterreno, riprendendo in parte quanto già a suo tempo fatto da Dante con la Divina Commedia.

Beatrice Fazi arricchisce l’opera con il suo dialetto, quello Campano, che porta fuori il carattere iracondo di Elvira e ne esaspera i sentimenti, primo fra tutti la paura per il futuro, che a quanto pare non passa morendo. 

La fusione, efficace, è quella tra la cultura pop dei giorni nostri e i ricordi dei tempi di scuola, tra ciò che ci portiamo dietro come bagaglio di nozioni e quello che viviamo quotidianamente, in prima persona o tramite i giornali. 
Nessuno resta escluso da quanto accade e si dice sul palco, ma parlar di vita e di morte significa entrare nell’intimo di ogni spettatore.
E a fine spettacolo ognuno va via un po’ più consapevole di sé, del suo tempo e di come vuole viverlo.