Pasolini: Monteverde e dintorni al Teatro India

In mezzo a ignari tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole”. Ecco le prime parole, barbare e crudelissime, che echeggiano nell’aria dolce della sera, mentre la brezza estiva copre col suo manto materno Monteverde, il Gazometro e via Ostiense. E’ in questo scenario senza tempo, che profuma di nostalgica e sapiente borgata che calca la scena, il 30 maggio 2022 l’esercitazione/spettacolo Scheggia Ancora di mille vite (un omaggio a Pier Paolo Pasolini, a cura di Giorgio Barberio Corsetti, con gli allievi e le allieve dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico). La rappresentazione fa parte della rassegna Tre giorni al tramonto insieme a Che cosa sono le nuvole-Pasolini a Monteverde (con Andrea Satta al teatro Villa Pamphilj) e a Divina Mimesis dell’opera incompiuta di Pasolini (con Luca Ferri al teatro di Tor Bella Monaca) per celebrare i 100 anni dalla nascita del profeta. Una ciurma di ragazzi, anime di periferia, sguardi malinconici che si incrociano; in un campo sconfinato, sotto i portici di un magazzino, ancora tra gli stanzoni impolverati di una fabbrica abbandonata. É in ognuno di questi angoli che si compie la sacra poesia pasoliniana, è in ognuno di questi angoli che il pubblico viene trascinato a fare i conti con l’essenza del teatro-verità, quello cantato dagli ultimi, veri poeti dell’esistenza.

 Vincenzo Grassi, nel ruolo emblematico di Accattone, mostra la più estrema marginalità sociale in cui vive il personaggio attraverso delle interessanti sfumature di voce che oscillano come flussi di coscienza fino a sprofondare nei colori affranti e cromatici dei suoi abiti borghesi. Eros Pascale, un intellettuale sessantottino, si rivela un attore il cui sguardo esprime perfettamente i non detti dell’animo tumultuoso del personaggio. Egli è in grado di creare, attraverso i gesti naturali, una tensione che va oltre le aspettative e che esplode sul palcoscenico, quando recita degli struggenti versi poetici all’amato, come lume solo il desiderio che lo attanaglia. E poi ancora Marco Selvatico dalla consapevolezza inquieta, Lorenzo Ciambrelli, Alessio Del Mastro e poi Doriana Costanzo, Giulia Sessich, Ilaria Martinelli e Anna Bisciari; una schiera di anime femminili come angeli custodi del decadentismo sociale e paesaggistico imminente. Le voci forti, sottili, roche e spesso melodiose dei personaggi senza storia, le loro risate durante le corse, le azzuffate e i pranzi sembrano disciogliersi magistralmente sui loro volti quando la vita, coperta dal manto nero del palcoscenico, sembra cancellare quel disegno armonico del loro giovane futuro per coprirlo con dubbi e incertezze. La cameriera (Doriana Costanzo) balla, balla per esorcizzare le paure ma la cameriera non è altro che una di loro, enigmatica come Accattone, inconsapevole come Bello Bello (Lorenzo Ciambrelli) e innamorata della giovinezza come l’intellettuale.

 Ancora una volta, a teatro come nella vita, il verbo di Pasolini si rivela come mai attuale, vivo e tremendamente profetico, che non ha paura di scendere su strada per gridare che è tempo di rivoluzione. “Mi domando che madri avete avuto, se ora vi vedessero al lavoro in un mondo sconosciuto presi in un giro mai compiuto di esperienze così diverse dalle loro”, Parole forti, gridate dalla grata di un carcere, mascherano attraverso la poesia, lo spavento dei giovani di ogni generazione di fronte ad un mondo che cambia e in cui faticano a trovare il loro spazio. Parole scritte con la bomboletta su di un portone, parole sussurrate al cospetto di un campo al tramonto, parole scherzose e parole consapevoli che si prendono il gioco di corpi inconsapevoli e che si impossessano di loro rendendoli piccoli grandi profeti dell’esistenza. Il cerchio si chiude con una grande tempesta, a volteggiare sono i frammenti del volto di Pasolini mentre in piedi, a vegliarne i resti come le vestali fanno col fuoco sacro, i suoi discepoli, pronti a fare una nuova rivoluzione.