Cantiere Artaud è una compagnia emergente, con base ad Arezzo, nata dalla necessità e dall’urgenza del regista Ciro Gallorano e dall’attrice Sara Bonci di approfondire tutte le possibilità contenute nell’espressione verbale e testuale, ma anche corporea, tipiche della ricerca e della sperimentazione teatrali. Il gruppo, arricchitosi nel tempo di diversi collaboratori e collaboratrici, cerca oggi di esplorare i più diversi metodi di allenamento e messa in scena, al fine di realizzare spettacoli il cui il significato, anziché essere meramente delegato alla parola, diventi a tutti gli effetti visibile. E’ questo il caso de “L’eco della falena” (qui la nostra recensione) ma anche del secondo capitolo della trilogia, “L’eco della falena”, in scena il 9 aprile alle Officine CAOS di Torino.
Qual è la cifra fondamentale del vostro lavoro di compagnia e i capisaldi che animano la realizzazione di uno spettacolo?
Il lavoro prende sempre avvio da un’immagine ricorrente che ho nella testa. Per “L’eco della falena“, ad esempio, è stata quella di una donna con in mano un orologio da taschino. Dopodiché questa immagine deve fare sempre capo a un macrotema, in questo caso quelli del tempo e della memoria. Il tempo che passa è, però, lo scenario fondamentale intorno a cui abbiamo costruito “L’eco della falena”. A partire da questo complesso di immagini, temi e scenari si passa poi, generalmente, ai riferimenti letterari e iconografici, che sono per me fonte d’ispirazione personale. Per “L’eco della falena” mi sono servito principalmente dei dipinti di Vermeer come anche delle atmosfere hopperiane, per arrivare poi a creare determinate immagini sulla scena, grazie anche al lavoro degli interpreti.
In che modo è cambiato o si è evoluto il vostro metodo per “Il volto di Karin” essendo un lavoro di gruppo?
Nel caso de “Il volto di Karin”, ai riferimenti iconografici ho preferito privilegiare le suggestioni e le proposte degli attori, in quanto è il lavoro stesso a essere incentrato su di loro. L’improvvisazione gioca nel nostro approccio un ruolo cruciale, dove uno dei miei compiti primari diventa quello di fornire dei riferimenti iconografici, anche tra i più disparati. Dato che “Il volto di Karin” è ispirato alle opere di Bergman, per le improvvisazioni si è partiti da alcuni frame dei suoi film. Il mio compito è quello di proporre agli interpreti uno scenario, per quanto possibile, chiaro, all’interno del quale loro sono chiamati a improvvisare. In ogni caso, quest’ultimo prevede da parte mia delle richieste, dei punti fissi e delle situazioni date, ad esempio il modo in cui una determinata scena deve iniziare o concludersi.
Qual è il tuo background artistico?
La mia è una formazione principalmente attoriale. Attività che, tuttavia, a un certo punto ho deciso di interrompere per motivazioni di natura prettamente personale, perché, in qualche modo, per me stare sulla scena non aveva più lo stesso valore. La motivazione si era affievolita, quasi scomparsa, tanto che mentre interpretavo questo o quel ruolo mi chiedevo continuamente il perché. Ma quel perché non c’era più e io rischiavo, avendo una compagnia indipendente (ovvero quella che possiamo definire, a tutti gli effetti, una piccola impresa teatrale, con tutte le difficoltà annesse) di diventare, da una parte, un burocrate e, dall’altra, di precipitare in un senso di frustrazione senza vie d’uscita. Le mie velleità registiche, però, avevano già fatto la loro comparsa. Ad esempio, durante i primi lavori ed esperimenti del gruppo, in cui mi barcamenavo tra la figura del regista e quella dell’attore. Si trattava, però, di regie collettive, che non mi sentirei di definire veri e propri spettacoli, bensì, piuttosto, degli esperimenti.
Come si svolgono concretamente le prove durante le residenze?
Durante le prime fasi di studio de “Il volto di Karin” ho chiesto spesso agli attori di guardare i propri colleghi dall’esterno, soprattutto per una questione di competenze. Per le partiture fisiche ci avvaliamo, in genere, della supervisione di una danzatrice che collabora con noi. In quanto regista le richieste che avanzo si basano, prima di tutto, su una certa ‘qualità di movimento’, che vorrei ottenere dagli attori, a partire dalla quale devono improvvisare. Dopodiché entra in gioco la danzatrice, prima correggendo e intervenendo sugli errori posturali e tecnici, poi prendendo parte lei stessa al lavoro in scena.
Come cambia l’idea di regia a confronto con il training e come ti poni rispetto alla figura del regista-allestitore?
Al training prendo parte anch’io, perché ho piacere a creare un gruppo coeso e, sinceramente, non mi piace affatto l’idea che gli attori facciano il training da soli. Sarebbe impensabile, dopo che hanno finito il loro ‘riscaldamento’, interrompere una situazione di così alta concentrazione ed esercitare il ruolo del regista che ‘da fuori’ manipola gli interpreti. Essendo il nostro un lavoro che richiede grande precisione, studiato e formalizzato al millimetro, al fine di far convivere in assoluta armonia tutti gli elementi sulla scena, dalle luci alle partiture fisiche, non posso pretendere da parte degli interpreti da subito questo grado di accuratezza, soprattutto se c’è una distanza tra me e loro.
Quindi, attraverso il training, anziché creare una distanza, diamo vita a un gruppo di lavoro unito, in cui anche le richieste più complesse possono essere soddisfatte. Tenendo conto di tutte le caratteristiche degli interpreti riesco, in questo modo, a creare una vicinanza concreta e a dar vita a tutto un altro clima. Durante le ultime residenze, ad esempio, ci siamo concentrati sui canti, sull’equilibrio, sul movimento. Il training non è mai fine a se stesso. E per questo è, generalmente, condotto dagli attori, perché così possano essere loro a guidarmi.
E questa scelta aumenta la responsabilizzazione degli attori sulla scena?
Penso che faccia parte di quel rapporto essenziale di fiducia che esiste tra attori e regista. Per questo, anche io, pur avendo l’ultima parola sulla scena, devo vestire i panni dell’allievo. Questo approccio fa parte della mia idea di regia, attraverso cui scopro e approfondisco nuovi metodi, oltre a suggestioni e idee, che possiamo poi far crescere insieme. Ad aprirsi sono per me finestre importanti sulla messa in scena finale e sulla sua realizzazione. Il mio obiettivo è quello di dare vita a un gruppo di lavoro arricchito dalle diverse competenze di ciascuno, in cui sia possibile migliorarsi a vicenda, in cui ognuno possa acquisire conoscenze nuove e utili, perché solo così il risultato finale può raggiungere una qualità diversa, ulteriore. Il segreto sta tutto nell’avere pazienza. Anche per questo, abbiamo bisogno di andare in scena il più possibile e di acquisire mestiere, soprattutto in determinate situazioni.
Ovvero?
Ad esempio, per riuscire a vincere delle difficoltà sceniche. I nostri spettacoli richiedono un apparato tecnico che non in tutti i teatri è possibile realizzare e, quindi, non sempre facciamo lo spettacolo che abbiamo in mente. A volte cambia, ma vincere in maniera più agile le difficoltà, inquadrare bene la situazione, sarebbe già una grande conquista.
Nel vostro training che ruolo ha la parola?
Il mio obiettivo, anche guardando allo straordinario insegnamento di Orazio Costa, è quello di arrivare a una qualità di parola che abbia un significato forte. Non vorrei apparire eccessivamente critico, ma devo ammettere che non amo molto quella parte di teatro, anche emergente, capace di mettere in scena solo una vuota ‘chiacchiera’. La mia idea di regia proviene, quindi, dalla necessità di allontanarmi da quel genere di teatro. La mia, però, non è una crociata alla parola, ma l’aspirazione di arrivare a una qualità verbale gravida di significati, che diventi quasi suono.
Com’è la situazione dei finanziamenti teatrali in Toscana e in che modo ne beneficiate?
Siamo stati riconosciuti come “Giovane formazione di prosa” dalla Regione Toscana. La nostra Regione è in questo senso molto virtuosa e, nonostante le difficoltà, alla fine è riuscita a sostenerci anche nel 2021. Abbiamo, inoltre, vinto un bando con “TRAC”, circuito di residenze pugliesi e siamo stati ospiti a Manfredonia presso la Bottega degli apocrifi. Questa è stata, tra l’altro, la prima residenza della nuova produzione. Siamo spesso ospiti in residenza alle “Officine della cultura”, compagnia della rete teatrale aretina. Allo spazio di Monte San Savino siamo già stati con “L’eco della falena” due anni fa e, credendo in questa continuità, ci hanno sostenuto per una residenza anche quest’anno. Siamo stati anche a Rovigo, ospiti del Teatro del Lemming diretto da Massimo Munaro, che ha creduto nel nostro lavoro, grazie anche alla nostra partecipazione al “Festival Opera prima” del 2020. Qui “L’eco della falena” non solo ha debuttato, ma Munaro, credendo molto nel nostro lavoro, ci ha voluti in residenza anche per la seconda parte della trilogia.
Raccontaci della tua esperienza come insegnante, presso il Liceo di Scienze Umane di Arezzo.
Sono sei anni che lavoro al liceo “Vittoria Colonna” e io stesso sono cresciuto molto nel tempo. Quando ho iniziato ero diplomato da poco come attore al Teatro Metastasio e mi ero laureato da appena qualche mese. Questo è stato per me un ingresso ufficiale nel mondo del lavoro, nonostante avessi già lavorato come attore al Metastasio. Tengo tre ore di lezione curriculare di teatro alla settimana, che fanno parte dell’insegnamento di Lettere. L’obiettivo non è quello di formare degli attori, perché questo è un percorso fatto su misura per gli studenti, che a volte richiede anche molta cura e delicatezza, dato che i gruppi sono formati sia da chi è orientato a farne un mestiere sia da chi, invece, vorrebbe vincere in questo modo delle timidezze.
È tutto un altro approccio rispetto a quello con gli attori, un lavoro più di conoscenza e volto a superare determinate barriere personali. Alla fine non è previsto uno spettacolo vero e proprio, ma cerco, piuttosto, una forma in cui loro riescano a stare ‘comodi’, perché non tutti sono pronti ad avere un confronto diretto con il pubblico, dato che sono ragazzi spesso molto giovani. Dare una forma teatrale alle loro emozioni o alle loro necessità, in modo che possano stare bene, è il mio obiettivo principale.