Davanti ad alcune malattie la vita di prima sembra finire, ma dove? Dove va ciò che eravamo? E cosa siamo? Sono alcune della domande di Acanto, andato in scena al Teatro India
Il freddo dei corridoi di ospedale, l’incrocio di vite che non si conoscono ma condividono qualcosa di forte, profondo. L’ansia, la paura. A volte il dolore. Un luogo dove il tempo si ferma, il respiro rallenta e poi accelera. Ci si guarda intorno, basta uno scambio d’occhiata per capirsi, per sapere. Si può decidere di rimanere in silenzio, si può parlare. Magari non ci si rivedrà mai più, ma in quel momento si è compagni di qualcosa. Di viaggio, di dolore. Di speranza.
È questa l’ambientazione di Acanto, lo spettacolo con cui dal 9 al 12 ottobre Nicola Russo è tornato – questa volta in veste di autore e regista – al Teatro India.
Seggioline rosse in fila, lo scotch colorato che indica ai pazienti dove andare. La scena è minimale, proprio come ci si aspetterebbe in un ospedale. C’è silenzio, forse siamo in un padiglione nascosto, lontano da occhi indiscreti. Un certo senso di isolamento e solitudine, più del normale. È qui che un uomo (Alessandro Mor) attende il suo turno stando al telefono con qualcuno. La sua voce è ansiosa, la paura è palpabile. Non vorrebbe essere lì, eppure è abituato a farlo, si sente, si capisce. L’interpretazione di Mor è familiare a chiunque almeno una volta abbia avuto paura davanti a uno studio medico. Quasi una catarsi vederlo rappresentare in scena quell’ansia, un sentimento di comprensione pervade lo spettatore, anche il meno ipocondriaco.
Ed è nel bel mezzo della telefonata che si palesa il secondo protagonista, un ragazzo giovanissimo (Gabriele Graham Gasco), che porta in scena la spavalderia di facciata dell’aver vent’anni, creando un bel contrasto tra l’ansia manifesta e quella occulta. La paura è la stessa, la reazione opposta. Due mondi che confinano ma si toccano solo per sbaglio.
Potrebbero essere padre e figlio, forse si incontrano perché c’è stato un sovraffollamento di appuntamenti e c’è un ritardo, magari non dovrebbero neanche essere lì insieme. Ma lo sono, e dopo una ritrosia iniziale diventa quasi naturale mettersi a parlare, vagare con la mente altrove.
Dove sei? E dove vorresti essere? Come vorresti fosse questo corridoio triste? Sono le domande iniziali del più grande dei due, che guida il giovane compagno d’attesa in un viaggio che ha un legame con il luogo in cui si trovano, ma parte molto prima.
Ad accompagnare la scena alcuni video che mischiano foto e natura, quasi un omaggio alla confusione di un mondo-non-mondo dove corpo e ambiente si confondono, si mischiano, perdono i confini che li rendono concreti. Un tutt’uno che non inizia e non finisce, destinato ad esistere e basta.
In un vortice che unisce onirico ed erotico, Acanto ci trascina in una storia che riesce a parlare di sessualità con dolcezza e rispetto tanto del tema quanto dello spettatore. Il viaggio emotivo e di crescita che ci raccontano i due uomini, la storia delle loro relazioni iniziali, dell’età in cui il corpo smette di essere solo il mezzo in cui stiamo nel mondo e inizia a diventare qualcosa di più, è profonda.
E anche quando lo scambio tra i protagonisti si fa fisico, mettendo vicini uomini di due età molto diversi, si rimane in confini delineati. L’erotismo è ben calibrato, non esaspera, non provoca. Non cerca lo scandalo, l’esasperazione forzata, il punto di rottura con la morale. C’è una dolcezza di fondo, il vero contrappeso della paura, che riesce a ricucire il legame con la purezza anche quando il corpo è centrale nella rappresentazione.
Quel che Acanto porta sul palco è la storia degli uomini, dell’amore, della scoperta di sé, ma anche della malattia e della paura. Non c’è morte, c’è speranza, e c’è tutto il perbenismo silente che ruota intorno al male di cui alla fine si vuol parlare, l’AIDS.
Perché se fossimo in qualsiasi altro reparto sarebbe più facile. Se due uomini si raccontassero altrove, dove non c’è stigma, dove la malattia è parte della vita e basta, sarebbe diverso. Sarebbe un aspettare insieme, condividere per stemperare una paura che gli altri possono accogliere ma non comprendere.
Quel che invece accomuna i due protagonisti è il non poter tirar fuori altrove quel che provano, non aver un mondo di sani che possano almeno provare ad ascoltare.
Come già accaduto con Christophe nel 2024, Russo ha di nuovo portato in teatro vite normali, cose che esistono accanto a noi, nel corridoio accanto, nel padiglione dopo. Vite come insiemi di storie, percorsi che ti portano nel mondo, fosse anche per finire nella sala d’aspetto di un ospedale. C’è un prima e un dopo nella malattia, è vero. Ma lo spartiacque non è un muro di oblio, non cancella ciò che è stato, non obnubila tutto quel che sarà, neanche quando è stretto il legame tra il prima e il dopo.
Serve sempre chiedersi come vorremmo fosse il mondo, cosa vogliamo immaginare, come ci piacerebbe fosse un corridoio grigio.
Bisogna portare con sé tutto quel che si è stati per poter andare avanti.
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Acanto – Testo e regia Nicola Russo – con Alessandro Mor e Gabriele Graham Gasco – scene e costumi Giovanni De Francesco – luci Giacomo Marettelli Priorelli – suono Andrea Cocco – video Matteo Tora Cellini – assistente alla regia Isabella Saliceti – foto di scena Giovanni De Francesco – produzione MONSTERA – in collaborazione con Alchemico Tre – Teatro India dal 9 al 12 ottobre 2025





