L’Aida al Teatro dell’Opera, l’emozione senza tempo

Si è chiusa con l’ultima replica di domenica 12 Febbraio la rappresentazione dell’Aida al Teatro dell’Opera di Roma.


Sotto la regia di David Livermore l’opera di Giuseppe Verdi si è allontanata dal racconto glorioso per cui nacque, la celebrazione di un Egitto antico e maestoso, per entrare nell’intimo dei suoi protagonisti.
Cala il senso politico, si anima quello emotivo, sottolineato dall’orchestra diretta dal Maestro Michele Mariotti, che dà alle musiche il meritato valore non di accompagnamento ma di parte centrale. La scenografia gode della presenza di uno schermo a fondo palco in grado di esasperare volta per volta la maestosità o la drammaticità della scena, riuscendo a integrare con intelligenza la tecnologia anche là dove va in scena la storia della lirica.


Due spaccati di muro appositamente costruiti si muovono stringendo e allargando lo spazio scenico. Non servono solo a farci entrare nell’idea dell’Egitto maestoso e imponente, il paese di piramidi e faraoni; nel loro aprirsi e chiudersi sottolineano l’intimità delle scene più delicate, dei momenti di solitudine di Amneris (Ekaterina Semenchuk), del dolore di un’Aida sempre più divisa tra l’amore romantico e quello per il suolo patrio (Krassimira Stoyanova).


Le scelte di regia di Livermore appaiono in linea con una visione moderna e minimalista dell’opera Verdiana, che scava nell’animo dei personaggi chiedendoci di prestare attenzione alle loro vicende e non al contorno. Rimane vittima di questa scelta il momento del Trionfo nel secondo atto, un po’ sottotono rispetto alla media delle rappresentazioni, con la scelta di concentrarsi sul momento delle danze che occupa il palco da solo e relegare lo sfarzo allo sfondo supportato dallo schermo.


Questo non toglie merito alla performance delle ballerine, precisa, coordinata e attenta, messa in risalto proprio per l’autonomia rispetto al momento trionfale e capace quindi di catturare l’attenzione del pubblico, Ciò che si perde, però, è la magia di uno dei momenti iconici dell’opera, col rischio di far storcere il naso agli appassionati piu tradizionalisti. Al contrario è riuscito l’effetto della struttura che dall’alto cala il Re (Giorgi Manoshvili) e poi sul finale Amneris, chiarendoci senza ombra di dubbio la differenza tra il sopra e il sotto, sia fisico che sociale, in un’opera che ben sa dividere gli uomini in classi e valori.


In questo senso è forte anche la scelta dei costumi, che sottolinea benissimo la differenza tra Amneris e la sua rivale in amore, tra il Re e il valoroso Radamés (Gregory Kunde), e ancora di più tra il popolo d’Egitto e i prigionieri Etiopi, Amonasro (Vladimir Stoyanov) in primis.
L’armonia tra voci, musica e interpretazione di alto livello mantiene intatta la magia di un’opera che, a oltre un secolo e mezzo dalla sua prima rappresentazione, riesce a incantare spettatori con età, provenienze e storie diverse, superando il tempo e lo spazio come solo all’arte è concesso fare.