C’è stato un momento, anche molto lungo, in cui l’Occidente ha deciso di guardare con grande ammirazione al Grande Orso. Un’autocrazia mascherata da una debole democrazia che ha illuso il mondo che potesse entrare nell’ordine mondiale come alleato piuttosto che come nemico. Un’autocrazia guidata da un uomo, il presidente Vladimir Putin, che è riuscito a propagandare la propria figura non solo in patria, ma anche all’estero, diventando un paladino dei leader dei partiti antisistema europei. Prima di tutto ciò, la sua indole autoritaria e aggressiva, tanto compiaciuta da alcuni personaggi della politica, era stata messa in pratica nei primi anni del suo “regno”. A tracciarne un ritratto era stata Anna Politkovskaja, la giornalista della Novaja Gazeta – periodico russo da sempre in aperta opposizione al governo, il cui direttore Dmitrij Muratov ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2021 – poi assassinata nel 2006 in circostanze misteriose. Il suo La Russia di Putin è un atto eroico dissidente contro l’autorità imposta, un manuale di giornalismo di inchiesta, una guida al pensiero critico.
Pubblicato la prima volta nel 2005, La Russia di Putin è ritornato in questi mesi nelle librerie italiane in una nuova edizione Adelphi. Il libro di Politkovskaja diventa così imprescindibile per capire cosa sta succedendo oggi in Russia. La giornalista costruisce un libro di inchiesta, di reportage, condensando un’opera dal valore emotivo e sociale di estrema importanza. Le pagine non raccolgono una semplice (per modo di dire) analisi politica, ma, come espressamente indicato da Politkovskaja: “Il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia”. E non è nemmeno una biografia del presidente. Putin è il protagonista nascosto di questa storia, si cela dietro le quinte facendo pesare in ogni pagina la sua incombenza. Nelle storie di disumana crudeltà, di violenza, di ingiustizia, la figura del capo russo si racconta per osmosi. C’è la sua mano, la sua volontà dietro ogni fatto di corruzione e sopruso.
L’autrice racconta la propria nazione attraverso i suoi paradossi e le sue finte vittorie. Il libro ripercorre la guerra in Cecenia e le sue vittime dimenticate; la decadenza morale dell’apparato militare; la crisi economica che ha trascinato giù la media borghesia, unico possibile attore trainante verso la democrazia; la mafia di stato degli oligarchi e l’enorme corruzione ad essa collegata; l’eccidio del teatro di Dubrovka; la strage dei bambini a Beslan. Insieme, le testimonianze e le storie di chi tutto ciò l’ha vissuto sulla propria pelle, incredulo come nel mondo il capo di un governo così feroce possa essere non solo accettato ma anche osannato.
Politkovskaja si concentra in particolare sulle forze armate russe, perno di una paese che si fa grande e minacciosa verso l’esterno, ma demograficamente ed economicamente povera al suo interno. A leggerli alcuni dati sembrano uscire da una realtà effimera, non congeniale a quella a cui siamo abituati. Nelle tante pagine dedicate all’esercito ne risulta che che è “un luogo chiuso” dove la vita al suo interno “è una vita da schiavi”. Per citare solo un dato scioccante: nel 2002 più di 500 uomini dell’esercito sono morti, non per la guerra, ma per le percosse subite dai propri ufficiali. Con una società civile che non ha più il controllo su quella militare, dove il nonnismo dei più alti in grado si trasforma sistematicamente in tragedia, l’apparato militare diventa icona e simbolo del sopruso inflitto al più debole.
Per la giornalista questo libro è un appello al mondo. Putin “non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui”, “insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà” e “soffoca ogni forma di libertà come nella precedente professione” ma “noi in Russia non vogliamo tutto ciò. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi”.