Riflessione sul cartellone più «affollato» della stagione
Ho assistito, come rincalzo della collega Francesca Romana Moretti che ha seguito l’evento, alla presentazione della stagione del Teatro Lo Spazio, gestito e curato da Manuel Paruccini, il quale ha guidato egregiamente e con meticolosa precisione lo scorrere del più fitto cartellone che abbia mai contemplato in oltre quarant’anni di frequentazione teatrale.
Quarantasei diversi titoli proposti dal 5 ottobre al 28 maggio prossimo, per una media di sei differenti spettacoli mensili. Tanta ricchezza di testi ha portato, all’interno del delizioso Spazio di San Giovanni, una folla di protagonisti: ciascuno ha presentato agli altri la propria partecipazione. Si potrebbe pensare a una grande festa tra artisti. Sarebbe stato auspicabile. E non nascondo che fino a un certo punto sembrava davvero un incontro felice e interessante tra attori, registi e autori dell’ultima generazione dell’off-theatre. Poi qualcuno, giustamente, si è stancato e ha lasciato la sala; per cui i protagonisti primaverili si son ritrovati esclusi dal fulcro della kermesse e quindi delusi. Gli applausi che costoro ricevevano erano fiacchi rispetto ai precedenti, e soltanto perché in platea c’era meno gente. Un rappresentante del mese d’aprile ha fatto notare che non era piacevole presentare il proprio lavoro a una mezza sala. Aveva ragione! Ma come dar torto agli altri, dopo due ore di permanenza sedentaria?
In verità, il direttore artistico, cautelandosi con una lodevole precauzione, ha invitato tutti a parlare sotto la ribalta. «Se si evita di salire sul palco – deve aver pensato – forse si guadagna tempo!» Così le amichevoli chiacchierate si sono svolte in platea nell’unico teatro romano che mette a disposizione due palcoscenici nello stesso spazio. Tuttavia, più di quaranta spettacoli raccontati, pur se brevemente, da uno, spesso due, a volte anche tre emissari presenti per ciascun titolo, hanno protratto la manifestazione fino alle 21.30 e oltre. Circa tre ore di presentazione.
Caro Paruccini, un tempo così lungo da dedicare a un cartellone teatrale non si è mai verificato, nemmeno alle presentazioni delle grandi stagioni dell’Eliseo dove presenziavano Visconti, Stoppa, Morelli, De Lullo, Falk, Valli, Albertazzi, Proclemer e tanti altri. Inoltre, un elenco tanto fitto di spettacoli pone un serio problema di identità professionale agli attori. Ciascuno, mi creda, per quanti difetti porti in scena, è giusto che dopo un periodo di studio e di prove, abbia il tempo per maturare, davanti al pubblico, il personaggio che interpreta, affinché possa eliminare quei difetti (di cui sopra) e poter dire in camerino, con soddisfazione, davanti allo specchio: stasera l’ho fatta finalmente bene! Secondo il calendario stilato, tre giorni di rappresentazione sono il periodo più lungo che lei offre a un artista del palcoscenico per raggiungere il suo obbiettivo; un obbiettivo che spesso si rincorre per interi anni.
Quasi cinquanta spettacoli in otto mesi: suvvia, sono numeri che si addicono a una catena di montaggio, non a un teatro. Il palcoscenico è una bocca affamata di nostalgie, di emozioni, di sogni, entità impalpabili che hanno la necessità di crescere dopo che il guscio della creazione è stato infranto. Le sembrano sufficienti tre giorni? Le confesso queste mie sciocche riflessioni, perché il suo Spazio è uno spazio incantevole, unico nella sua semplicità, un po’ fuori del tempo, tra mattoni antichi e lontane atmosfere che conservano ritmi meno frenetici. In tre giorni (ma questa è ormai una cattiva abitudine di molte sale romane e non solo) non si arriva nemmeno a richiamare il pubblico degli amici. Se noi della stampa assistiamo alla prima e, a tempo di record pubblichiamo la recensione, questa non serve più al pubblico, ma solo talvolta agli addetti ai lavori. Perché imporre questa menomazione? Bisogna prendere coscienza che i canali di diffusione di notizie che riguardano il teatro e le promozioni degli spettacoli, pur se hanno seguito l’evolversi del tempo sul trafficato viale dell’informatica, viaggiano per vicoli secondari, a rallentatore, nascoste da una fitta rete di novità e pubblicità molto più visibili rispetto a quelle che riguardano il mondo che noi amiamo, il quale – lo sappiamo bene – continua a seguire un primitivo passaparola, ben lontano dall’incessante ritmo di una catena di montaggio.
Quei morti registi. Durante la kermesse, poi, un signore vestito da militare, che con eccessiva imprudenza s’è spacciato per attore, prendendo il microfono in mano, ha detto quasi testualmente: «Essendoci liberati dei registi che ci indicano da dove e come entrare in scena, che non ci suggeriscono più le intonazioni di una battuta, perché sono morti, e noi siamo soddisfatti che la natura abbia fatto il suo percorso…».
Caro Paruccini, lei naturalmente è esente da colpe per questa disdicevole battutaccia, eppure, con estrema cautela la invito a diffidare dei militari, specie quando si presentano in teatro con la divisa: non sono mai portatori di buone novelle. Io spero con tutto il cuore che lei si dissoci da questa bestemmia militaresca!
Al signore, che ripeto non so chi sia, auguro tutto il successo possibile sui campi di battaglia che purtroppo richiedono, al contrario di un teatro, tanta disumana fermezza. Quei registi che si chiamano Strehler, Ronconi, Visconti, Giannini, De Filippo, Costa, De Lullo, Castri, Patroni Griffi, Ferrero, e altri, non si sono mai permessi di gioire della morte di qualcuno. Neanche durante la guerra che quasi tutti loro hanno vissuto sul serio.
Comunque, caro Paruccini, le auguro il più affettuoso in bocca al lupo.