Kurt, il figlio della spia

A Cappella Orsini uno spettacolo capace di parlare di discriminazione, follia e violenza senza giri di parole

Seduti nella piccola platea di Cappella Orsini, circondati dall’arte in tutte le sue forme, in quegli spazi tanto ridotti quanto decorati, non ci si aspetterebbe di fare un viaggio nel tempio fino alla Berlino Est degli anni ’80. E invece è proprio lì che ci porta Ilse Stuttgard, vedova Kaufmann, andato in scena sabato primo giugno nell’ambito del Festival De Rebus Amoris.

Bruno Petrosino

La penna e la regia di Michele Zaccagnino, accompagnate dalla musica di Valter Dadone, hanno portato sul palco Bruno Petrosino per uno spettacolo di appena venti minuti. Pochi ma sufficienti a entrare nel cuore della vicenda di Kurt, giovane figlio di Ilse Stuttgard, spia della Stasi, matrona che controlla tutto e tutti, amica del regime. Un ruolo pesante quello di sua madre, che incide sulla considerazione che gli altri hanno di Kurt, sulla sua possibilità di stabilire relazioni e legami. 

Kurt ci parla in prima persona. Magro, in tuta, è visibile la situazione di disagio fisico e psicologico in cui vive. Lui imputa molto alla psoriasi, malattia della pelle che lo rende estetisticamente diverso da chi ha intorno, ponendolo in uno stato di emarginazione. Il suo modo di parlare però ci fa pensare anche ad altro, forse una forma di autismo o di difficoltà cognitiva, a cui si aggiunge la difficoltà dell’essere stato un bambino orfano di padre e figlio di una spia. 

Una vita fragile, solitaria, che si sfoga nella cucina di un ristorante. La cucina come punto centrale della vita di Kurt, quella sana e quella insana, che diventa violenza, sopraffazione, fino a uno dei crimini più inumani immaginabili. Il ritratto che ci presenta Kurt dà subito la sensazione che qualcosa di grave dovrà accadere. È nell’aria la tempesta in arrivo, lo sconvolgimento. 

Sul piccolo palco della Cappella Orsini Bruno Petrosino si muove senza difficoltà.
Si sdraia e sta in piedi, circondato da lattine che possiamo immaginare come le magre razioni alimentari della Germania est – e invece hanno a che fare con l’alimentazione ma non sono segno di povertà materiale -. Si agita convulso, si racconta e mentre lo fa cresce nello spettatore un certo senso di angoscia, di paura. Non c’è spazio per la compassione, per il dispiacere per quella vita sfortunata, perché il sentore è che tutta la rabbia di Kurt diventerà dolore per altri. 

In scena alle sue spalle c’è Rachele Leccadito. In piedi e vestita di nero è lei Ilse Stuttgard, vedova Kaufmann, la madre che dà il titolo all’opera. Potrebbe arrivare sul palco solo nel momento in cui entra in scena, e invece sta lì, espressione plastica del peso emotivo di questa donna che non ha saputo aiutare il figlio. È il fantasma, la causa, l’origine. 

E come tutte le cause sta alle spalle delle conseguenze, osserva da dietro ciò che ha prodotto.
Nel susseguirsi degli eventi la cornice della Cappella Orsini si mostra sempre più adeguata. Un teatro più grande, più spoglio, non alimenterebbe correttamente la pesantezza che sale man mano che Kurt entra nel dettaglio della follia dove l’ha condotto questa sua vita così dolorosa.  Bruno Petrosino incarna perfettamente il suo personaggio, questo mix tra la debolezza dell’aspetto e la durezza dell’animo. Un crescendo che arriva fino ai lati più oscuri dell’animo umano, quelli che di umano sembrano non avere più nulla. 

Bruno Petrosino e di spalle Rachele Leccadito

Tutto questo in poco più di venti minuti di spettacolo, segno di una scrittura capace, libera da fronzoli e giri di parole. Non ce n’è bisogno; la tensione rimane alta, l’angoscia è palpabile e la brevità della pièce tiene tutto insieme. Un viaggio nel lato oscuro dell’umano, nelle conseguenze della solitudine, della psiche ignorata.

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lIse Stuttgard vedova Kauffman scritto e diretto da Michele Zaccagnino – con Bruno Petrosino e Rachele Leccadito – arrangiamenti musicali di Valter Dadone – Cappella Orsini 1 giugno 2024