Il teatro sotterraneo. Il fenomeno delle cantine romane tra i sessanta e i settanta – II parte

di Marco Belocchi

Nel pullulare dei teatri-cantina, esploso già all’inizio degli anni sessanta ( prima parte dell’articolo, (https://quartapareteroma.it/il-teatro-sotterraneo-il-fenomeno-delle-cantine-romane-tra-i-sessante-e-i-settanta/) l’avanguardia teatrale si interroga sulle esperienze fatte in quasi un decennio e viene convocato ad Ivrea, tra il 10 e il 12 giugno del 1967, un convegno nel tentativo di fare un bilancio, tra artisti e critici, delle attività: si dibatte su possibili circuiti indipendenti, magari creare un’associazione fra i teatri sperimentali. Tra discussioni e spaccature l’associazione viene costituita a Milano prefiggendosi di “perseguire un teatro di ricerca non solo formale su uno stile e un linguaggio contemporaneo, di sostenere e incrementare l’attività di gruppo e di laboratorio teatrale e di riunire le forze nuove del teatro per garantire una assoluta autonomia di ricerca”. Tra i fondatori figurano Carmelo Bene, Leo De Berardinis con Perla Peragallo, Carlo Quartucci, Mario Ricci, il Teatro dei 101 ed altre formazioni non romane come La Loggetta di Brescia, l’Antonin Artaud di Bologna, oltre ai critici Bartolucci, Quadri, Capriolo e Fadini che propongono ai partecipanti uno scritto programmatico su cui dibattere, pubblicato poi sulla rivista “Teatro” n. 2, 1967-67 e riportato integralmente nel volume di Franco Quadri “L’avanguardia teatrale in Italia”.

Questo naturalmente si riflette anche negli spazi non istituzionali che con l’inizio del decennio successivo si moltiplicano, registrano il tutto esaurito e le compagnie sono costrette a replicare gli spettacoli per mesi anche in teatri diversi, complici anche la liberazione sessuale, il nudo in scena diviene un passaggio obbligato, e una componente di certo maledettismo. Il fenomeno quindi è ormai seguito stabilmente dalla critica, non solo quella militante di un Quadri o di un Cordelli, ma da molti quotidiani conservativi, creando così un fermento senza precedenti. Da queste premesse, tramontata l’euforia del sessantotto prenderà il via la seconda ondata dell’avanguardia, poi ribattezzata Teatro Immagine, tra la fine del ‘72 e il ‘73, con conseguente apertura di nuovi spazi teatrali.

Tra questi fa capolino, almeno per un certo periodo, uno luogo che non si connota direttamente come teatro, ma come galleria d’arte polifunzionale e anti-istituzionale, l’Attico di Fabio Sargentini. Nel suo enorme garage in via Cesare Beccaria dalla fine degli anni sessanta ospita la musica d’avanguardia da Terry Riley a La Monte Young, da Steve Reich a Philip Glass. Lo sconfinamento nel teatro diventerà inevitabile e Sargentini ospiterà anche spettacoli veri e propri.

Altro percorso è quello del Dioniso Teatro Club, fondato da Giancarlo Celli, il quale si pone subito il problema relativo al concetto di partecipazione attiva degli spettatori, sperimentando strutture di teatro-assemblea e teatro-guerriglia. Celli apre quindi nel 1966 un suo spazio in via Madonna dei Monti e comincerà la sua attività nel gennaio del ’67 fino al ’68, quando decide di dare una svolta decisamente politica al suo gruppo.

Sempre alla metà degli anni sessanta apre invece, ad opera del regista Antonio Calenda, nella zona residenziale del quartiere Prati, allora fuori dai circuiti teatrali, il Teatro dei 101 in via Euclide Turba, un teatro laboratorio dove il giovane regista intende lavorare su un nuovo teatro di drammaturgia mettendo in scena autori come Boris Vian, Fernando Arrabal o Pablo Picasso, e ancora Guillaume Apollinaire, Harold Pinter e Corrado Augias. 

Ma è soprattutto tra Trastevere e Testaccio, centri ormai dei movimenti culturali della capitale negli anni settanta, che altri spazi spuntano dalle cantine, dai seminterrati, dalle ex stalle diventando un vero polo d’attrazione, almeno per quel che riguarda il teatro. In poco più di un decennio Trastevere si trasforma da luogo della Roma del Belli e di Trilussa, ancora vagamente malfamato, a ritrovo degli artisti e dei luoghi alternativi. In via della Paglia sorge nel 1970 il Teatro De Tollis, sede della compagnia dei Folli guidati da Nino De Tollis, e attivo per almeno tre decenni. Spazio Zero di Lisi Natoli, un teatro tenda situato in via Galvani a Testaccio, molto connotato politicamente, che però esulava dall’idea di “cantina” per approdare ad un concetto di spazio più ampio, vicino al circo. Nel 1975 il teatro Intrastevere in vicolo Moroni, uno spazio piuttosto grande che constava di 3 sale. Si trasformerà negli anni novanta in un cinema. Negli anni successivi sorgeranno ancora Il Cielo, poi divenuto Teatro Argôt in via Natale del Grande, ancora attivo; il Teatro Incontro in via della Scala tra il ’76 e il ’79, poi Piccolo di Roma; Il Leopardo in Vicolo del Leopardo tra il ’78 e il ’79.

Tornando a Testaccio prenderanno vita il Teatro L’Accento in via Romolo Gessi 8 nel ’71, il Teatro Dei Cocci, in via Galvani, accanto al teatro tenda Spazio Zero, ma siamo già negli anni ottanta. Infine non si può non citare, anche se in tempi relativamente più recenti rispetto alla nostra indagine, il particolarissimo Teatro Di Documenti, edificato dallo scenografo Luciano Damiani nei sotterranei sotto la sua abitazione in via Nicola Zabaglia e inaugurato da Ronconi nell’87, un gioiello tutt’ora attivo grazie al lavoro instancabile di Carla Ceravolo.

Ritornando poi verso il centro storico vanno ancora segnalati il Teatro Cedro, in vicolo del Cedro, del gruppo Teatro Albatro di Duccio Dugoni e Tecla Silvestrini, operante fino al ’76; il Teatro di vicolo del Fico, del Gruppo Altro, inaugurato nel dicembre del 1973 e rimasto attivo per tutti gli anni settanta; L’Inaspettato di Angelo Pellegrino, in via di Grotta Pinta, attivo dal 1974, ex chiesa di Palazzo Orsini, ora operante con la denominazione di Cappella Orsini. E ancora il Teatro del Cardello, in via del Cardello attivo dal 1975, il Parnaso sito in via San Simone, attivo negli ultimi anni settanta, per chiudere con il Teatro dell’Orologio in via dei Filippini, fondato da Mario Moretti e Valentino Orfeo, chiuso definitivamente nel 2017.

Il movimento dell’avanguardia è connaturato dunque ad un uso diverso degli spazi teatrali, se nacquero come una necessità, l’uso che ne fecero gli artisti ne rivendicò l’autonomia sia dei linguaggi, sia da una visione commerciale del teatro. Lo spazio determina quindi in qualche modo le scelte estetiche, i gruppi sperimentali reclamano il diritto di radicarsi in luoghi in cui lavorare indisturbati dalle routine, reinventando di volta in volta a seconda delle esigenze lo spazio stesso in totale libertà e indipendenza. Tutto questo ha innestato un moto irreversibile: la proliferazione dei piccoli teatri, delle cantine, degli spazi altri, nei decenni seguenti ha dato modo al teatro di rinnovarsi continuamente, di cercare altre vie per manifestare la sua esistenza e se anche non rappresenta certo più l’avanguardia, o almeno non sempre, consente a piccoli gruppi di farsi le ossa, di saggiare le proprie potenzialità, di sperimentarsi, e questo è sempre segno di vitalità. Oggi a Roma se ne contano diverse decine, aprono e chiudono con facilità e come allora occupano garage, magazzini, meno spesso umide cantine e forse si presentano con un aspetto meno catacombale, meno “maudit”, talvolta ricostruiscono perfino il palcoscenico all’italiana, con tanto di sipario, tal’altra scelgono una via modulare, sedi magari di laboratori di formazione più che di sperimentazione vera e propria. 

PS. L’articolo è un estratto di un più lungo saggio che apparirà nel volume curato da Lorenzo Pompeo ed edito da Ensemble, Una certa idea di una certa città. Roma tra cinema, arte, teatro e poesia (1948-1968).

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