Amoresano è tornato e ci racconta una storia struggente che parla di memoria, famiglia e si domanda cosa rimane in noi delle persone che siamo stati. Lo scorso 9 settembre è uscito Il nostro meglio edito da La nave di Teseo, terzo romanzo di Alessio Forgione.
L’ultima volta che mi sono imbattuta in Amoresano è stato con Napoli mon amour, l’esordio letterario di Alessio Forgione. Era il 2018 e lui aveva 30 anni, con i tipici problemi di un trentenne contemporaneo. Con Il nostro meglio facciamo un salto indietro nel tempo e ritroviamo Amoresano in due momenti diversi della vita, il primo da bambino in età scolare e il secondo a 20 anni al primo anno di Università. Il punto di congiunzione tra i due momenti, qui narrati in parallelo, è la nonna, la signora che in copertina guarda fuori dalla finestra mentre Amoresano guarda noi tenendo la mano a sua nonna.
Possiamo dire che quella del protagonista di questo libro è un’educazione sentimentale, una sorta di periodo di transizione, un coming of age durante il quale l’elaborazione di un lutto diventa la chiave per riflettere sulla propria esistenza e sul nostro stare al mondo. Amoresano, Chiccù, come lo chiama sua nonna, è il risultato di alcuni eventi significativi. Chi era il trentenne di Napoli mon amour prima di diventare grande? E quanto di lui è rimasto?
Chiccù si ritrova ad affrontare una serie di cambiamenti conseguenti a un unico grande evento scatenante: sua nonna si ammala gravemente e le restano pochi mesi di vita. Da questo momento in poi il protagonista è come senza bussola e il tempo della storia sembra in qualche modo sospeso, tutto si muove in un tempo- non tempo in cui si alternano il sospeso del presente nell’attesa che l’inevitabile accada e il passato (un presente che non è più) fatto dei ricordi della quotidianità del piccolo protagonista e del suo rapporto con la nonna: i momenti belli, i giochi, le piccole abitudini di ogni giorno ma anche i litigi.
Rispetto ai due precedenti romanzi Il nostro meglio fa male e tocca a mio avviso le corde giuste.
Forgione mette in evidenza una verità sulla quale ci si sofferma poco ma che capita a ciascuno di noi quando dobbiamo affrontare un dolore. Cambiamo, siamo trasfigurati, appesantiti e tutto il resto ci sembra di poca importanza di fronte a quel dolore.
Amoresano si ammutolisce, parla poco, assai meno rispetto al trentenne di Napoli mon amour, è sgomento arrabbiato e non sa più che parole usare per far uscire le sue emozioni. Per esempio non riesce a parlare del suo dolore con gli amici, ce la fa solo con Maria Rosaria, la ragazza della tabaccheria vicino casa con cui si crea un’affinità o per meglio dire una tensione amorosa inesausta. Perché anche le storie d’amore in questo romanzo sono sospese. Ogni possibilità d’amore o attrazione sessuale per le ragazze che Amoresano incontra è stroncata sul nascere. È come la malattia della nonna, già in fase terminale, si sa già come va a finire.
Quante volte la noia di vivere, i pensieri quotidiani, le frustrazioni e l’insoddisfazione ci hanno impedito di esistere a pieno?
Il protagonista suona la chitarra e con Angelo e Micio i suoi più cari amici si ritrova per suonare, vorrebbero diventare una band a tutti gli effetti e Angelo è il motivatore del gruppo finché anche i suoi sogni, da un momento all’altro, si infrangono come un’onda del mare sugli scogli e anche quest’ultimo punto di riferimento del protagonista sfuma. Angelo parte per Londra senza avvisare e con tutta l’intenzione di stabilirsi in Inghilterra, il nostro protagonista è arrabbiato ma anche in questo caso non ha davvero la forza di incazzarsi, la sospensione dei suoi sentimenti arriva fino al punto cruciale dell’addio; momento in cui sfuma tutto.
Leggendo questa storia non si può fare a meno di pensare ai nostri cari, alle persone che abbiamo perduto, ai dolori che abbiamo provato e insieme al protagonista ci poniamo le stesse domande. Una su tutte mi ha gelato il sangue nel corso della lettura, non è una domanda ma una verità puntuale, un dato di fatto: per la nonna Chiccù si è fermato ai 20, avrà vent’anni per sempre. Lei non vedrà il tempo scorrere ma tutto si cristallizza in quel presente che rimane fissato come in una fotografia.
La fotografia della copertina in cui la nonna guarda un altrove a noi inaccessibile e Amoresano ci guarda dentro come fa la sua storia e ci impone di fermarci sul dolore.
Lui in canottiera bianca e capelli arruffati come Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli, con un volto anche questo senza tempo, che potrebbe raccontarci una storia degli anni cinquanta come del duemila, come il giovane imberbe Arturo di Elsa Morante, acerbo e inconsapevole ma profondamente giovane, profondamente emozionato eppure incapace proprio per questo di spiegarsi a parole sue. Forse perché a vent’anni non si possono avere troppe parole né si vogliono conoscere, tantomeno di fronte alla morte dove siamo tutti bambini come Chiccù.
Un plauso va anche al concept della copertina di questo romanzo, di rado l’autore stesso interviene nella scelta della copertina e in questo caso, possiamo dire che la storia inizia proprio da questa fotografia (scattata da Elio Di Pace, fotografo e regista di cui suggerisco di seguire i lavori) che a quanto dichiarato dall’autore stesso si ispira proprio a una scena di Rocco e i suoi fratelli.
Se di solito si dice che un libro non si giudica dalla copertina, posso dire però che in questo caso il romanzo ci invita nella storia attraverso la foto di copertina e personalmente non chiedo niente di più a un’opera letteraria che vivere un’esperienza emotiva come in questo caso.
Un’ultima nota rispetto alla lettura dei romanzi di Forgione è che non si tratta di una saga, ma di romanzi connessi tra loro seppur indipendenti. Consiglio la lettura dei due precedenti per avere una visione d’insieme del mondo che racconta l’autore.