“Hong Kong Express”: la recensione

Ritorna al cinema in versione restaurata la celebre pellicola del ’94 del regista cinese Wong Kar-wai, che, in un vestito nuovo, ci riporta nella schizofrenica e quasi onirica Hong Kong del passato.

Nella caotica metropoli si susseguono due storie diverse ma estremamente intrecciate, che si svolgono tra filosofia e ironia, tra le abbaglianti luci al neon e le piogge notturne. Nell’atmosfera irreale i temi sono tanti. Il tempo prevale su tutti. Il regista lo gestisce in maniera originale e lo muove a suo piacimento, facendo incontrare personaggi che vivono in due linee temporali differenti, che per qualche motivo si avvicinano e quasi si toccano, in quello che forse è solo un lungo sogno. I protagonisti in alcuni momenti sembrano muoversi quasi in maniera distaccata dalla realtà, a volte più lentamente, altre più rapidamente, mentre tutto intorno il tempo segue una linea retta i personaggi vengono distorti all’interno di essa. Il tempo viene compresso e poi allungato.

Kar-wai sembra quasi ossessionato dal tempo, e, se si può dire, ossessionato dall’ossessione del tempo. In entrambi gli episodi che compongono il film, ci sono delle scadenze, delle scadenze che i protagonisti si impongono senza un reale motivo, come bloccati da qualcosa che li chiude in sé stessi, senza dar loro la possibilità di muoversi veramente. Forse il tempo è qualcosa prodotto dalla mente, forse perché il film è un lungo sogno, o forse sono più sogni. Scanditi, infatti, da canzoni che contengono dream nel proprio testo, canzoni che si ripetono in maniera veramente ossessiva, quasi fastidiosa, lungo tutta la pellicola. Si alternano spesso, infatti, “California Dreamin” dei Mamas and Papas e “Dream Person”, cover di “Dreams” dei Cranberries. Forse un suggerimento che intende far pensare a un sogno, irreale, o forse dei sogni in un senso diverso, un senso di speranza da parte dei protagonisti.

Il regista inizialmente voleva mostrare tre storie, ma, completata la prima, si era reso conto che poteva aver girato già metà del film e ha deciso di raccontarne due. La prima vede un giovane poliziotto, He Zhiwu (Takeshi Kaneshiro), che patisce quotidianamente la mancanza della sua compagna che lo ha lasciato, sperando di vederla ritornare. Presto però si innamora di una donna misteriosa, una donna dalla parrucca bionda (Brigitte Lin) con un passato oscuro. Nel secondo episodio ritroviamo un altro poliziotto, l’agente 663 (Tony Leung), stordito anche lui dopo essere stato lasciato dalla sua fidanzata. Parla con gli oggetti della sua casa, conduce una vita monotona, sembra si sia lasciato andare e non si accorge nemmeno dell’insistita presenza, anche qua ossessiva, di Faye (Faye Wong), che si innamora di lui. Inconsciamente la giovane cameriera si impersonifica nella sua compagna. Si insinua lentamente – e illegalmente – nella vita di 663, che però sembra essere in un mondo suo, o, come detto, in un sogno, e non si accorge di quello che avviene nella sua stessa esistenza.

I due racconti condividono le stesse emozioni, gli stessi temi, ma si districano in maniera differente. Nel primo episodio He Zhiwu, si lascia andare a lunghi e toccanti monologhi. Intriso di passione, affranto dalla rottura con la compagna, cerca in tutti i modi di passare oltre ma non riesce, rimanendo impantanato in una realtà che lo consuma. Nella seconda parte, il tutto viene narrato con spensieratezza, con la leggerezza di Faye che vive alla giornata, che sogna di partire. L’ironia e la particolare stranezza dei due protagonisti li avvicinano, ma in tempi diversi, perché, purtroppo, il tempo non lo si può proprio controllare.

“Capita a tutti di perdere un amore. Ogni volta che succede a me, mi scarico correndo perché così butto via tutti i liquidi dal corpo e non me ne restano più per le lacrime.”

Teatro Roma
Flaminia Zacchilli

Amanti: in terapia si piange

Una commedia forse troppo leggera, dedita a fare luce sulla controversa figura degli “amanti” e sul peso delle relazioni extraconiugali 

Leggi Tutto »