“Guanti bianchi” di Edoardo Erba al Cometa Off

Colleferro è un paese di ventimila anime (non più Frosinone, ma non ancora Roma, ma con entrami i fonemi confluiti nel vernacolo) soffocato nella Valle del Sacco,  dei cui miasmi e reflui industriali si ammanta notoriamente da lungo tempo.

Paolo Triestino – Guanti bianchi

 Il tormentato destino di questa cittadina, che si fa fatica a definire ridente, è stato contrassegnato dalla vocazione industriale che a viva forza i ras locali hanno sempre impresso a quella comunità, forse pensandola naturale espansione dello stesso toponimo cittadino, Colleferro. In realtà quella consonante F che cambia il destino cittadino altro non è che la corruzione o meglio la traslitterazione fonetica della V del nome originario, che quindi suonava ColleVerro, cioè  Colle del maiale selvatico.

 Ma tant’è: i padroni nativi -essenzialmente le famiglie Bombrini e Parodi- pensarono di impiantarvi una fabbrica di esplosivi, trasformata poi alla fine della guerra– ormai inesorabilmente avviata la compromissione dell’aria e delle acque locali – in stabilimento di insetticidi. In tal modo la tempra locale si è strutturata in una dimensione operaistica, senza grande spazio per il resto.

  In quella realtà cresce e opera il protagonista di questa storia, Antonio, magnificamente interpretato da Paolo Triestino. Per lui il destino ha in serbo un percorso tutto diverso da quello dei suoi concittadini. Il giovane Paolo scarta dalla sua strada segnata il futuro di addetto alle pompe funebri nella ditta di famiglia e diventa apprendista al seguito di uno zio a Roma che fa un lavoro speciale: il movimentatore di opere d’arte. Non esiste un albo, né un magistero per questo tipo di attività. Esistono –gli spiega lo zio- solo dei guanti bianchi da indossare sempre, per evitare di contaminare con le mani le opere destinate alla movimentazione: quadri e sculture dei più celebrati artisti di ogni epoca,  richieste per l’esposizione da mostre e musei del mondo. Un lavoro di fatica? Sicuro, se si tratta di opere in marmo, oppure di dipinti dalle dimensioni esagerate. Ma non solo: la consuetudine con le faccende dell’arte lentamente trasforma lo sguardo del povero Antonio che, prima di mettere le mani su quelle testimonianze della civiltà e decidere con quale passo e con quali mezzi avviarle al trasferimento, letteralmente le impara. Passati i primi guizzi tramortiti da Sindrome di Stendhal per tutte quelle meraviglie che vede alla corte dello zio, esperto movimentatore, Antonio giorno dopo giorno apprende la cifra semantica di ogni opera di cui si occupa, fino a diventare una sorta di esperto d’arte. E sarà speciale anche in questo: dà prova della sua consumata arte divulgativa ai suoi concittadini (la platea degli spettatori in una semi-rottura costante della quarta parete) con descrizioni niente affatto erudite, ma colte sì. In un linguaggio povero, utile per farsi ascoltare da un parterre alla buona come lui, l’arte – nelle sue significazioni più recondite, da sempre appannaggio solo di occhi istruiti- torna ad essere patrimonio di tutti, compresi i semplici truzzi, da sempre espulsi dall’accesso consapevole alle espressioni artistiche.

 E così su un fondale povero ma bello scorrono le immagini della statua di Nike (non Naik per favore!), la Vittoria alata, plagiata nelle ali e nel nome per l’impiego commerciale su scarpe da ginnastica, quelle del Mosè di Michelangelo raccontato nella sua postura corrucciata scolpita per significarne il risentimento verso il popolo eletto scoperto ad adorare un vitello d’oro, mentre lui era lontano sul Sinai a farsi dettare la legge del patto con Dio. E via via ancora, la tavola della Città ideale attribuita a Leon Battista Alberti, o il dipinto di Tiziano L’amor sacro e l’amor profano descritti con tutto l’entusiasmo generoso di uno che ha capito il Rinascimento non dai libri, ma grazie al rispetto ogni volta riservato a quelle opere di cui aveva la fortuna della contiguità.  E la passione didascalica del protagonista -che sa di avere conquistato il suo uditorio di concittadini- non conosce confini, azzardando perfino intrattenimenti sul proto-impressionismo di Turner, o l’astrattismo di Pollock o il concettismo spaziale di Lucio Fontana!

Il racconto che fa Paolo Triestino nei panni di Antonio è trascinante, mai pedante, un occhio sempre vigile alla meccanica dell’intrattenimento che pretende leggerezza, senza cedere mai spazio alla corrività fine a se stessa, perché il cuore principale di quella narrazione rimane fisso alla consegna di partenza: il Bello è patrimonio di tutti e conoscerlo e saperlo apprezzare è il passo fondamentale che ci restituisce in pieno il senso della nostra dimensione umana.

Quella che venne straziata tre anni fa  proprio in quel di Colleferro quando un pugno di delinquenti e di complici inerti si resero protagonisti del massacro di quel povero ragazzo che la memoria collettiva ha adottato con il nome di battesimo di Willy.

Paolo Triestino – Guanti bianchi

E la riflessione che ci induce quel ricordo proposto in finale non sa niente affatto di posticcio: in perfetta continuità con il taglio didascalico de noantri, il richiamoè alla coscienza del vuoto che si determina in una comunità nella diserzione dei valori dell’Umanesimo.

 A cominciare dall’Arte. La scena, essenziale negli arredi, in perfetta coerenza con lo spirito della narrazione è firmata da Francesco Montanaro. Efficace e sempre misurato il disegno luci di Giuseppe Magagnini.

Guanti bianchi di Edoardo Erba Liberamente ispirato a L’arte spiegata ai Truzzi di Paola GuagliumiCon Paolo Triestino – musiche Natalia Paviolo – luci Giuseppe Magagnini – costumi Traart scena Francesco Montanaro – animazione Valeriano Spirito – aiuto regia Matteo Montaperto – Al Teatro Cometa off fino al 14 maggio.

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