Gregory: «Essere se stessi è una questione politica»

Al Teatro Belli «Riot Act» con Massimo Di Michele. Secondo appuntamento della rassegna Trend

Per il secondo appuntamento della rassegna sulla drammaturgia inglese, al Teatro Belli, in scena soltanto tre sedie, per tre personaggi: ciascuno con la sua esperienza alle spalle e un resoconto da esporre, ognuno con il proprio carico di Riot act da raccontare con gli affanni emotivi di chi ha vissuto un dramma o, meglio, di chi è sopravvissuto a quel dramma. Nel 1715 il parlamento britannico emanò uno statuto secondo il quale i fautori delle rivolte avevano un’ora di tempo, dalla lettura dell’atto da parte del tribunale, per far perdere le loro tracce, altrimenti sarebbero stati condannati a morte. In tempi più moderni l’espressione di riot act è rimasta nel lessico inglese nella sola accezione di dar lettura pubblica di un atto che riguardi un pericolo. Autore di queste «letture» recitate è Massimo Di Michele che attraverso la partecipazione di Michael, Lavinia e Paul, tre personaggi ideati e scritti dall’attenta e spietata penna di Alexis Gregory, al grido di «Essere se stessi è una questione politica», ricorda tre momenti fondamentali della lotta per i diritti omosessuali dal 1969 a oggi. Un’unica storia generazionale vissuta in tre epoche differenti.

Nel trittico di Gregory, Michael rappresenta il capostipite. È l’unico che parla al microfono, come se stesse tenendo una conferenza e le sue confessioni sono pubbliche pur restando intime nel dolore vissuto. Michael ha partecipato alla carneficina del giugno 1969 a New York. Precisamente allo Stonewall, un bar gay in Christopher Street al Greenwich Village. Un locale squallido, sporco, lercio – spiega Michael, 73 anni, in giacca e panciotto – talmente inospitale che verrebbe da chiedersi: perché andarci? perché frequentarlo? Semplice: era l’unico posto dove gli omosessuali erano meno molestati e si sentivano quasi protetti. Michael, all’epoca dei fatti aveva 17 anni, e descrive con puntiglio critico e severo chi fossero quei frequentatori abituali in vena di sperimentare il loro lato femminile: vecchie orribili checche che amavano indossare gli abiti delle loro madri morte; poi c’erano le cosiddette marchette e anche le prime drag, ma ognuno faceva parte di uno stereotipo gay molto distante dal nostro immaginario odierno. Lo Stonewall, però, periodicamente veniva preso d’assalto dalla polizia che, con l’arroganza e la violenza dei manganelli, picchiava selvaggiamente, e senza alcuna ragione, chiunque vi si trovasse all’interno. Solitamente non erano tanti, ma la sera del 27 giugno, il bar ospitò circa trecento uomini, travestiti e non, che accorsero per onorare il loro idolo, Judy Garland, morta da pochi giorni. Quando la polizia irruppe nello Stonewall la folla si riversò in strada e fu una carneficina. Per la prima volta i giornali americani si interessarono alle violenze subite per anni dai gay. Da quel momento si cominciò a parlare del movimento di liberazione omosessuale. Ma, al di là degli eventi storici, il personaggio di Michael descrive alcuni particolari che diventano il testimone per la staffetta del successivo riot act: per esempio, due uomini non potevano ballare insieme, né tenersi per mano.

Vestita in un succinto abitino di paillettes, Lavinia – la divina Lavinia – è una drag sperimentale, una delle prime, quando, dopo l’episodio dello Stonewall, nel mondo gay già si respirava un po’ più di libertà, e solo in certe circostanze ci si poteva mostrare in abiti femminili. Lavinia è il personaggio più triste dei tre perché mette in mostra tutti i limiti che l’età rende evidenti. Lei si sente un personaggio teatrale, una sorta di Jessica Rabbit ante litteram: cerca di essere se stessa, ma è difficile rimanere in equilibrio sul filo dell’esibizione perenne. È consapevole del suo stato rivolto alla freschezza e alla spontaneità di un passato che non può tornare, e man mano che il suo racconto, volutamente esiguo, procede verso la vecchiaia («se sono divina vuol dire che son diventata vecchia») le parole la rivestono di un abito sempre più triste, cucito di malinconico lamé.

Paul, la terza voce, è un guerriero sopravvissuto allo sterminio dell’Aids. Siamo alla fine degli anni Ottanta, forse inizio Novanta. Lady Diana già ruppe il muro del perbenismo, andando in visita in un reparto di sieropositivi (aprile 1987) in un ospedale londinese. Paul ricorda con rabbia e amarezza i primi tempi in cui la malattia si stava propagando, e dagli States arrivò nel Regno Unito. Dicevano: «Se non volete contagiarvi non dovete avere rapporti con gli americani»; per un periodo fu l’unica imbarazzante precauzione che rivelava l’assoluta incapacità della scienza e delle autorità di proteggere la popolazione. Grosso modo quel che è accaduto quando è scoppiata l’ultima pandemia. Ma con l’Aids ci fu un imbarazzo in più che impedì ai media di divulgare onestamente le notizie: parlare di Aids significava portare sulla ribalta delle cronache la diversità omosessuale. Il racconto di Paul diventa drammatico e paradossale: dalla notte dello Stonewall, tante conquiste sono state ottenute, ma ancora tanto silenzio ricopre il suo dolore cumulativo per la morte dei suoi amici.

Non bisogna mai adagiarsi sugli allori per i riconoscimenti ottenuti, occorre sempre restare vigili, perché la cattiveria, l’ipocrisia, la meschinità umana sono sempre pronte a riconquistare terreno in un campo di battaglia senza tregua: verissimo. Ma è altrettanto vero – come è stato detto – che non bastano quattro filmetti su storie omosessuali per tirare un sospiro di sollievo. Anzi – mi permetto di aggiungere – forse proprio quei quattro filmetti sbagliati diventano motivo per inasprire una battaglia ancora lunga.

Terminato lo spettacolo, di Michael, di Lavinia e di Paul si sono perse le tracce. Nessuno più li ha visti. Buon per loro, sopravvissuti al severo statuto settecentesco. È rimasto solo Massimo Di Michele a godersi i lunghi e sinceri applausi di una platea che ha seguito con molta attenzione. Tutto questo è Riot act. Tutto questo è, ancora una volta, teatro politicamente impegnato.

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Riot Act, di Alexis Gregory, traduzione di Enrico Luttmann. Diretto e interpretato da Massimo Di Michele. Teatro Belli, fino all’8 novembre.

Trend. Nuove frontiere della scena britannica (XXII edizione). Rassegna teatrale a cura di Rodolfo di Giammarco. Al teatro Belli fino al 17 dicembre.

Foto di copertina: Massimo Di Michele in «Riot act»