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Il linguaggio teatrale – Intervista a Giuseppe Marini, regista de “La classe”

Giuseppe Marini, attore e regista teatrale, ha diretto grandi classici della letteratura teatrale, per dedicare ultimamente a una drammaturgia contemporanea. Al terzo anno dal suo debutto, è ancora in tournée riscuotendo grande successo, il suo spettacolo “La classe” (di Vincenzo Manna). Intervistato da Quarta Parete ci parla di questo spettacolo e della situazione teatrale al giorno d’oggi.

Iniziamo parlando de La classe, che torna in scena per il terzo anno portandosi dietro tanti applausi. Lo spettacolo parla di un disagio sociale molto impattante e tratta tematiche “scomode”, come mai ha scelto di dedicarsi a questo testo e com’è nato questo spettacolo?
Lo spettacolo è nato da una ricerca che abbiamo fatto, corredato di interviste, campionature proprio perché ci interessava uno spettacolo sul disagio giovanile, sul tema dell’immigrazione, ma si poteva rischiare una genericità senza una ricerca e una documentazione sensata, effettiva, senza ricalcare luoghi comuni, anche perché lo spettacolo non è ideologico, non prende posizioni, pone delle domande, dei problemi, dei temi, come sempre deve fare il teatro. È compito del teatro col suo linguaggio specifico – che non è quello della televisione, della radio o del cinema – porre all’attenzione dei temi di rilevanza, in questo caso ad esempio confluiscono il disagio giovanile, i ragazzi di una periferia incolta e degradata, con l’aggiunta del problema dell’altro, del diverso, dell’alieno per qualcuno, che è appunto l’immigrato confluito in quel caso in uno “zoo” addirittura, e il fatto che lo chiamino “zoo” la racconta lunga.

Dalla prima rappresentazione il cast è parte cambiato, che criteri utilizza generalmente per scegliere gli interpreti delle sue opere, in questo caso in particolare gli studenti?
Ho una predisposizione a una duttilità, una plasticità. Come si può immaginare, non potevo prendere degli adolescenti, dei giovani effettivi che magari poi non potevano reggere il ruolo. Questi attori rendono molto bene, ma hanno tutti la loro storia, la loro provenienza, questo è un po’ il paradosso e il compromesso – nel senso migliore della parola – del teatro. Per mettere in scena “Romeo e Giulietta” come si fa a prendere veramente una quattordicenne o un sedicenne, che poi devono sostenere quei versi, quei ruoli, in maniera traslata e diversa il problema è lo stesso. È quindi necessaria questa duttilità, con grande intelligenza del regista e dell’interprete insieme per restituire questi impulsi, questa carica distruttiva dell’adolescenza, che è una delle stagioni più pericolosa della vita di un uomo, un’età in cui ogni cosa è assoluta, e questo può anche generare dei disastri, delle autodistruzioni irrimediabili.
Insieme a questo poi c’è anche un criterio umano, mi interessa che sia un gruppo molto coeso, è uno spettacolo che deve viaggiare e quindi stare insieme tanto tempo, che deve creare insieme in scena un’unica cosa, anche se con voci diverse, un’unica musica. È quindi importante fare attenzione anche all’elemento umano, predisposizione al lavoro insieme. Ci sono attori anche molto bravi, ma che non rientrano in questa necessità.

Anche in questo spettacolo ha scelto Claudio Casadio per un ruolo di forte valenza, così com’era stato in altri casi come ad esempio L’Oreste. Che rapporto ha con Casadio, che ormai è diventato il suo “attore feticcio”?
Spero che lo resti anche per tanto tempo, le avventure del teatro sono tante, varie, è un attore che io stimo, ha dato un forte impulso produttivo al progetto de “La classe”, uno spettacolo che gira da tre anni e nei luoghi più importanti del teatro italiano, come quello di Lucca e poi andremo a Pistoia, il Biondo di Palermo, lo Stabile di Torino.
Il rapporto con Claudio Casadio è splendido. Anche ne “L’Oreste”, che in quel caso era stato scritto proprio per lui, voluto da lui, pensato su misura dal punto di vista drammaturgico, registico. Ne “La classe” è entrato in seconda battura, ma in maniera esemplare, con forte impulso produttivo, visto che è anche coproduttore come Accademia Perduta/Romagna Teatro dello spettacolo (insieme a Società per Attori e Goldenart Production di Federica Vincenti)
Con Casadio c’è stato anche il “Mar del Plata”, è la terza volta che mi trovo a lavorare con lui. L’Oreste è l’ultimo arrivato che ha debuttato a Lucca, al Teatro del Giglio, in occasione del Lucca Comics e che partirà con una tournée il prossimo anno probabilmente anche internazionale, perché se la merita tutta.

Viste anche le tematiche di questo spettacolo (La classe), può secondo lei il teatro essere uno strumento di educazione sociale?
Certamente sì, ma a patto che mantenga il suo linguaggio, mantenga la sua specificità, quel qualcosa che il pubblico vuole vedere a teatro, con il suo codice specifico e non usare altri mezzi di comunicazione, che magari arrivano anche prima. Il teatro non deve competere, deve eleggere e valorizzare il suo strumento, narrativo, specifico.
Io ho iniziato con molti classici rivisitati, rimasterizzati, ma da qualche anno mi cimento con la drammaturgia italiana contemporanea soprattutto a sfondo e tematiche socialmente impegnate.
L’importante per il teatro, che sia classico o contemporaneo, è che parli dell’oggi. E quindi sì, il teatro può assolvere una funzione civica, così come nell’antichità. Il teatro alla fine è nato per questo. Ma non snaturando il suo linguaggio e la sua natura.

Prima di dedicarsi esclusivamente alla regia, ha avuto un’importante formazione ed esperienza come attore, quanto influisce questo nel suo modo di fare regia?
Credo che sia senz’altro una marcia in più, bisogna conoscere molto profondamente i vari fattori, gioie e problemi dell’attore in scena. Bisogna toglierli dall’impaccio, dall’impasse o a volte provocarla ad arte se questo ha delle finalità feconde. Bisogna sapere che cos’è stare in scena, stare “dall’altra parte”, non basta solo l’approccio intellettuale. Non si deve perdere di vista la finalità ultima, che è l’attore che poi è lì in scena.
Il regista deve avere la capacità di stare in scena, ma di sparire, deve trasparire il suo pensiero attraverso gli attori, ma non deve ridondare la sua scrittura scenica di egotiche istanze, che purtroppo si vede ancora troppo nel nostro teatro.

La pandemia è stata un duro colpo per il teatro, ma dal momento in cui sono state riaperte le porte il pubblico è tornato e ha avuto voglia di tornare e questo dà speranza a chi di teatro ci vive. Lei come lo vede il futuro del teatro?
È una domanda delicata, da quanto ho cominciato a fare teatro – e si parla di diversi anni fa – ho sempre sentito parlare di crisi, si parla da sempre di crisi. Il teatro porta una crisi, proprio perché è legato alla sua natura. Si sente parlare di crisi, però questa strana cosa chiamata “teatro” continua ad esistere, a volte in maniera un pochino faticosa, a volte agonizzate, a volte addirittura vietata come durante la pandemia.
Il fatto che la gente stia tornando e abbia voglia di emozionarsi, abbia voglia di storia, esce di casa proprio per andare a teatro, questa è una speranza. Forse per trovare qualcosa di diverso, di specifico, che non trova in altri mezzi di comunicazione

In questo momento ha dei progetti in corso che dovrebbero debuttare a breve, può dirci qualcosa a riguardo?
Il primo è un monologo – di cui curai anche la prima edizione – per Emanuele Salce che ha scritto in forma diaristica, sempre con linguaggio del teatro, dei suoi pensieri, delle istanze sull’amore, sul teatro in maniera molto garbata, che rappresenta la sua bellezza d’animo, un modo di narrare elegante, come un cabaret raffinato, un’affabulazione molto densa, sia dal punto di vista autoriale che attoriale, che è un po’ un unicum e crea una cifra molto personale. Il mio è quindi uno sguardo, una regia che lo faccia volare. Anche in questo caso, il regista deve sparire, il monologo è dell’attore, ma questo non significa che l’intervento del regista non sia necessario.
Lo spettacolo è “Diario di un inadeguato”, di e con Emanuele Salce che debutterà al Teatro Off Off di Roma dal 23 al 27 febbraio.
L’altro progetto è “Il caso Braibanti”, con testo di Massimiliano Palmese, che debutterà al Teatro Franco Parenti di Milano dal 22 al 27 febbraio e tratta appunto di questo processo-farsa del ’68 subito da questo intellettuale dell’epoca che era Aldo Braibanti.