Priscilla

Priscilla, di Sofia Coppola: non Elvis ma le conseguenze di un mito

Una storia di dipendenza affettiva, di controllo e abuso psicologico

Priscilla è la proposta, dalla regia caratterizzante, di Sofia Coppola, di un biopic sulla regina consorte del Re del Rock and Roll, dal momento della conoscenza fino al termine del matrimonio. Il tentativo è quello di andare a esplorare una zona del palco rimasta buia, per non condizionare l’illuminazione perfetta del mito Elvis Presley. Il film racconta una storia difficile da vedere, ma che è rappresentazione di una situazione altrettanto importante da conoscere.

Jacob Elordi e Dagmara Dominczyk

1959, Germania Ovest. Priscilla Beaulieu, quattordicenne, conosce Elvis a una festa e tra loro inizia una frequentazione. Al termine del servizio militare della star e al conseguente ritorno negli Stati Uniti, i due non si vedono né si sentono per circa due anni. Elvis ricompare un giorno invitandola ad andare a trovarlo. Nonostante l’iniziale reticenza dei genitori, visti i dieci anni di differenza e la fama di lui, non soltanto Priscilla otterrà il permesso, poco tempo dopo si trasferirà direttamente nella residenza di Graceland, a Memphis. Da quel momento in poi, Priscilla vivrà un amore fatto di lunghe attese, continui tradimenti e tanta noia in quella che può definirsi una gabbia dorata. Il matrimonio, arrivato dopo sette anni, durerà altri cinque e la nascita di una figlia prima di veder uscire definitivamente Priscilla dal cancello di Graceland.

La poetica tipica di Sofia Coppola trova un modo di narrare i fatti che sovrasta la superficialità di alcuni dialoghi. La cinepresa rimane sempre a una distanza consapevole, eliminando quel giudizio che spunta solo successivamente nella mente di chi guarda. Nonostante la narrazione richieda una presa di consapevolezza degli anni in cui è ambientata, risulta comunque chiara nel messaggio che vuole comunicare. Nella regista c’è la volontà di tagliare fuori il mito di Elvis per focalizzarsi su sua moglie e l’esperienza che ella ha fatto di lui. Ma non solo. Perché scegliere di delimitare il biopic su Priscilla entro i confini della conoscenza e del rapporto con Elvis è funzionale a produrre una contronarrazione. Soprattutto dell’idea che si è potuto fare il pubblico di lei.

Questo perché quello che è successo alla protagonista è stato, di fatto, un controllo totale non soltanto della sua vita, ma della costruzione della sua personalità. Più Elvis dirige l’estetica di Priscilla, dal colore dei capelli, ai vestiti, al modo di truccarsi, e più ci si accorge di un cambiamento della bellezza folgorante iniziale della ragazza, ridotta poi a un involucro anonimo ripieno di sofferenza. La noia, l’attesa, l’insoddisfazione, la delusione, la dipendenza e gli abusi venivano tenuti a bada da sporadiche, evanescenti gocce di attenzioni e false promesse.

Il controllo avveniva anche sui desideri sessuali, che la compagna doveva reprimere a favore di letture che appagavano la coscienza della star. Così Elvis, trovando e sfogando nella fama l’amor profano, costringeva Priscilla nell’amore sacro, rendendosi quel parroco di cui cantava De André. Su questa privazione erotico-affettiva forzata insiste soprattutto la biografia di Priscilla, Elvis e me, a cui si ispira il film.

Per certi versi, nonostante non ci sia il mito, Elvis è al primo posto nella storia. Elvis c’è, ma non c’è. Questo perché serve per sostenere la contronarrazione di Coppola, che riesce nell’impresa di oscurare la star per prendere il punto di vista di chi gli stava accanto. Ciò che emerge è che, accanto a tutto ciò, c’è chi ne ha pagato le conseguenze. Adesso non importa raccontare ancora di Elvis, di ciò che ha passato, di come e perché ha fatto certe cose. Adesso conta far vedere che quelle stesse vessazioni, quelle gabbie che venivano imposte alla sua vita, lui le sfogava e riversava su sua moglie. Anche se non voluto ma il risultato un problema di diritti, il fatto che non si sentano nemmeno le canzoni di Elvis contribuisce ad astrarre ancora di più la sua figura in funzione delle volontà.

Priscilla rappresenta quindi la contronarrazione di Elvis, di cui è allo stesso tempo complementare. La visione di uno risulta propedeutica alla comprensione dell’altro. L’operazione di Sofia Coppola è quella di servirsi del mito, prendendo proprio il film di Baz Luhrmann come riferimento, per raccontare gli abusi e sofferenze che gli stessi causano alle persone attorno a loro. Dare per scontati tutta una serie di passaggi potrebbe però rendere difficile empatizzare e comprendere profondamente determinate dinamiche. Scavare in profondità nelle conseguenze negando quella stessa situazione che le ha provocate. Non poter entrare visceralmente nell’anima di quel rapporto disfunzionale. Questi sono aspetti che potrebbero compromettere l’intento dell’operazione.

Priscilla
Cailee Spaeny

Priscilla racconta con un naturalismo tanto delicato quanto impattante, un legame fatto di repressione, dipendenza affettiva, controllo e sofferenza. Il biopic non è su Priscilla come persona, ma sulla consorte del mito Elvis Presley. Ma alla domanda di molte persone sull’utilità di questo tipo di prodotto, la risposta è semplice. Il film di Sofia Coppola merita di essere visto per poter volgere lo sguardo su un altro aspetto della stessa storia. Un aspetto che è altrettanto importante e soprattutto ricorrente quando si racconta di soggetti preceduti dalla loro fama. Il fine ultimo di questa contronarrazione non è certo quello di infangare il mito di Elvis Presley, bensì rimarcare sulla doverosa scissione tra l’artista e la persona. Si può continuare a celebrare un prodotto pur consapevoli dell’umanità e delle scelte di vita di chi l’ha creato.

Priscilla – di Sofia Coppola – con Cailee Spaeny, Jacob Elordi, Ari Cohen, Dagmara Domińczyk, Tim Post, Emily Mitchell, Lynne Griffin, Daniel Beirne, Rodrigo Fernandez-Stoll, Dan Abramovici, R. Austin Ball, Olivia Barrett, Stephanie Moore, Luke Humphrey, Evan Annisette – Dal 28 marzo al cinema

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