Migliori di noi

Fronteggiare l’intelligenza artificiale per comprendere i nostri limiti

Ogni film è figlio del suo tempo e quale tema è più attuale dell’intelligenza artificiale, oggi che, dopo anni di esclusiva esistenza nella fantasia letteraria e audiovisiva, è divenuta realtà. Una realtà che può fare paura.

(c) 20th Century Studios

The Creator non può quindi che giocare con questi (spesso ingiustificati) timori per ritorcerceli contro in una classica lezione su uno dei più grandi difetti dell’umanità: temere ciò che è diverso, ma sentirsi ancora più minacciata quando le somiglia.

La sequenza di apertura ci aggiorna rapidamente sulla storia e l’evoluzione dell’AI nell’universo diegetico del film col più classico dei montaggi-sequenza per trasportarci rapidamente allo stato attuale: un mondo in cui androidi del tutto simili a noi, definiti “simulant”, precedentemente diffusi in tutto il globo, sono stati banditi dall’occidente a seguito dell’esplosione di una testata nucleare nel cuore di Los Angeles, provocata dall’attacco terroristico di un’AI. Tali premesse hanno condotto a una crociata di epurazione del pianeta dall’intelligenza artificiale guidata dalle autorità politiche nordamericane per scongiurare la possibile estinzione dell’umanità. Un’impresa dalle qualità genocidiali che convoglia tutti i passi falsi della recente storia americana.

All’origine di tutto, il trauma dell’11 settembre, sempre vivo nella coscienza collettiva americana e nella sua produzione artistica. E anche questa volta da qui si parte, con un attacco terroristico a una delle città-simbolo della sua cultura, lasciando un ground zero dalle cui macerie cominciare a ricostruire.

Il protagonista Joshua se la cava un po’ meglio delle vittime di Hiroshima, come crudamente mostrate in Hiroshima mon amour (1959), rimettendoci “soltanto” un braccio e una gamba. Ed è certamente il lancio dei due ordigni nucleari sulle città giapponesi nel 1945 la prima delle colpe che gli Stati Uniti si trovano a scontare, riportando in auge una vecchia ansia che aveva dominato il cinema americano negli anni della Guerra fredda.

L’attentato californiano innesca ovviamente una guerra al terrore pari a quella orchestrata da dietro le quinte dal vicepresidente Dick Cheney all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, innestando sentimenti di forte pregiudizio etnico e xenofobia tipici dell’era Bush. La conseguente caccia all’AI sollecitata dagli eventi, che porta l’evidenza di un atto di pulizia etnica, evoca anche reminiscenze di una questione più contemporanea per gli Stati Uniti, quella della lotta all’immigrazione clandestina dal Sud America, particolarmente calcata dal governo repubblicano al potere fino a pochi anni fa.

Nel film, comunque, la popolazione AI si vede costretta piuttosto ad emigrare dall’occidente, per ottenere asilo in Nuova Asia, fittizio Paese del sudest asiatico aperto all’accoglienza di profughi sintetici. Ed è qui che l’altro grande peccato degli Stati Uniti prende forma. L’intervento di forze militari statunitensi sul suolo dello Stato asiatico senza una dichiarazione ufficiale di guerra, privi di un interesse diretto nella situazione del Paese se non per un tornaconto nella propria agenda politica, non può che richiamare agli eventi della Guerra del Vietnam, parte del gioco di influenze geopolitiche legate alla Guerra fredda. Come non rivedere nei robot dalla testa piatta che si aggirano armati per i campi le immagini dei Viet Cong con i loro copricapo durante le azioni di guerriglia nel Vietnam del Sud.

Ma non aspettiamoci robot e simulant come esseri indistruttibili e inarrestabili alla Terminator (1984). Si tratta al contrario di creature fragili come esseri umani, del tutto simili a noi, capaci di provare (o simulare) emozioni, che desiderano soltanto vivere in pace.

In questa rappresentazione della vita sintetica quale immagine specchiata di un’umanità quieta, il conflitto con l’AI prende allora per gli umani la forma di una lotta per la propria anima, tentando di mantenere o riappropriarsi di ciò che definisce la sua unicità, la sua distintività da qualcosa che la emula e potrebbe rimpiazzarla. Alphie, salvatrice del popolo AI, non incarna altro che l’odierna fobia che l’intelligenza artificiale evolva al punto da divenire troppo simile a noi e poterci un giorno effettivamente sostituire.

Ma in definitiva, almeno nel film, i robot sono proprio come noi, anzi, forse anche migliori, non perché intellettualmente o fisicamente superiori, ma perché più umani. Il vero pericolo, infatti, non è quello di fantascientifiche acquisizioni di coscienza da parte dell’AI che decreti l’estinzione dell’umanità, ma (come sostiene una comunissima linea di pensiero applicabile a qualunque campo dell’esperienza umana) l’uso che noi, i suoi creatori, ne faremo. Essa rappresenta un potentissimo strumento nelle nostre mani e solo colui che la utilizza è suscettibile di commettere errori, prerogativa prettamente umana. Non è ammissibile incolpare quello strumento (come accade nel film). Siamo noi gli essere fallibili.

(c) 20th Century Studios

Indubbiamente un grande aiuto nello sviluppo dell’umanità, l’intelligenza artificiale necessita solo di una forte regolamentazione che ne scongiuri gli abusi prevenendo la propagazione di inammissibili succedanei.

The Creator di Gareth Edwards – Con John Davide Washington, Madeleine Yuna, Gemma Chan, Allison Janney, Ken Watanabe, Sturgill Simpson, Marc Menchaca, Ralph Ineson, Michael Esper, Veronica Ngo – Anno 2023

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