Michelangelo Merisi, la vita e l’arte di un fuoriclasse

Il Caravaggio di Michele Placido certamente vince, ma non convince, o forse convince poco. Vince perché Michelangelo Merisi è un fuoriclasse nell’arte e nella vita – un’esistenza che sembrerebbe proprio il frutto di un soggetto cinematografico – e vince soprattutto perché Riccardo Scamarcio ne interpreta l’animosità, il tormento e la ribellione con vigorosa efficacia. Vincente, lui, nella somiglianza oltre che, incisivo e persuasivo, nella recitazione. Il film vince, anzi stravince, perché il realismo pittorico di Caravaggio si presta a una teatralità incantevole: la realtà stessa da cui trae ispirazione diventa opera d’arte ancor prima di essere dipinta; non sono poche le sequenze dedicate alla sensibilità artistica del pittore che perfino dal cadavere di una sua modella (Annuccia Bianchini, morta suicida nel Tevere) ne ricava l’ennesimo capolavoro, «Morte della Vergine», 1604.

Il film vince facile perché Placido gioca bene sul dietro le quinte di molte opere, disvelandone la gestazione. Lo spettatore, quindi, è invitato a comprendere il significato del principio della verità, così come l’aveva intuita e interpretata il maestro lombardo che amava vivere tra i poveri dove si potevano cogliere quelle sfumature che ai più erano sconosciute: le infinite espressioni del dolore, della fame, dell’indigenza, della malattia. Più volte, infatti, il protagonista ripete la parola all’epoca impronunciabile e inquisita: quella verità che nello stesso periodo portò Giordano Bruno alla condanna a morte per eresia, Tommaso Campanella a subire torture ed esilio, e all’abiura per Galileo Galilei.

Ma il film non convince troppo, proprio perché non si apre mai a un contesto storico più ampio, attraverso il quale si comprenderebbe meglio il senso della ricerca della verità da parte del Caravaggio. Il quale, non essendo né un filosofo né uno studioso, ma soltanto un artista provvisto di un eccelso talento, è riuscito a condensare le nuove esigenze rivoluzionarie in una pittura innovativa anch’essa contraria alle reprimende della Chiesa. Fortunato quel Michelangelo Buonarroti che, un secolo prima, ebbe quale mecenate Giulio II, raffinato estimatore dell’arte. Caravaggio, invece, si trovò a dover far fronte a un papa, Paolo V (interpretato dal bravo Maurizio Donadoni), dagli orizzonti bui e da una severità assai bigotta che lo indusse a condannarlo a morte nel 1606.

La sentenza fu emessa dopo che Caravaggio si macchiò del delitto di Ranuccio Tomassoni (per futili motivi, per di più), ma la scrittura di Placido, Signorile e Petraglia, autori della sceneggiatura, porta giustamente a pensare che anch’esso, come i filosofi e gli scienziati già menzionati, fu considerato dal Vaticano personaggio assai scomodo e pericoloso. Con la sua arte – lo dice chiaramente l’ombra che lo perseguita (un algido imperturbabile Louis Garrel nei panni dell’inquisitore) vorrebbe insinuare nella gente il dubbio, ma la Chiesa non ammette che il popolo possa dubitare della verità di Cristo, così come la si dovrebbe interpretare secondo l’insegnamento cattolico.

Il film convince a tratti poco anche perché quest’ombra (l’inquisitore, appunto), che appare addirittura nel titolo, stride con gli effetti di luci ed ombre che Caravaggio crea nei suoi dipinti. L’artista è solito realizzare il vuoto intorno alle sue figure affinché queste risaltino in piena luce: vedi, per esempio, il «Bacchino malato», «Giuditta e Oloferne», «San Matteo e l’angelo» etc.

È sull’analisi delle opere pittoriche, ancora, che Placido mette a segno i colpi migliori dal punto di vista sociale, ponendo una lente d’ingrandimento sulla mentalità ecclesiastica dell’epoca, anche la più evoluta, sempre in ritardo con i tempi. Per cui, quando Caravaggio propone una Madonna senza angeli svolazzanti e senza cielo azzurro, ma una Vergine figlia della terra dove ha vissuto e sofferto, qualcuno ammette: «La Chiesa ancora non è pronta per questo». Così come pronta non è a sopportare che chi vende il proprio corpo possa far da modella a chi dovrebbe parlar d’amore.

Purtroppo la pellicola, in contrasto con questi picchi, soffre di improvvise cadute. La più eclatante è il breve dialogo tra Michelangelo Merisi e Giordano Bruno, ambientato in carcere pochi minuti prima che il filosofo venga condotto al rogo. Non c’è nessun documento che attesti l’incontro tra i due, tutt’al più l’episodio potrebbe essere considerato quale omaggio a un film televisivo del 1967 per la regia di Silverio Blasi che pone Gian Maria Volontè (Caravaggio) tra gli spettatori dell’esecuzione a Campo de’ Fiori: un’immagine molto significativa nella quale il pittore riconosce le sue sembianze nel volto stravolto del filosofo nolano.

Non convince nemmeno l’insistenza della sceneggiatura che di continuo s’accosta e si discosta inutilmente dalla realtà storica: appare una sorta di tradimento che Placido commette nei riguardi di Caravaggio che tanto si batté per la verità contro l’ignoranza e le superstizioni su cui la Chiesa basava discutibili antiche credenze. E ancora convince poco l’ambientazione in una Roma (ma anche Napoli) frequentata esclusivamente da prelati, prostitute e mendicanti, e da una sola marchesa (la sempre affascinante Isabelle Huppert): tutta qui la nobiltà e la borghesia di Roma papalina? Un po’ pochino, per la verità, se si esclude l’atelier del Cavalier d’Arpino! E purtroppo non manca anche un vistoso divario recitativo tra gli attori: oltre a quelli già citati meritano, però, un plauso il mendicante di Alessandro Haber, il pittore antagonista Giovanni Baglione di Vinicio Marchioni e il Filippo Neri di Moni Ovadia.

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L’ombra di Caravaggio, un film di Michele Placido, con Riccardo Scamarcio, Louis Garrel, Isabelle Huppert, Michele Placido, Micaela Ramazzotti, Vinicio Marchioni, Maurizio Donadoni, Gianfranco Gallo, Lorenzo Lavia, Moni Ovadia, e con Alessandro Haber.