L’uomo è crudele, possiamo raccontarci quello che vogliamo ma per quanta fiducia si può avere nell’essere umano anche il più fiero illuminista come Immanuel Kant, che sogna nel mondo un progetto di pace perpetua, non poteva non ammettere che “da un legno storto come quello di cui l’essere umano è fatto non può uscire nulla di interamente dritto”. Forse il contesto è un po’ diverso: Kant lo scriveva proprio per tracciare una strada che l’uomo in quanto specie avrebbe dovuto percorrere, per raggiungere, per quanto impossibile, la perfezione. Questa perfezione sembra lontana dall’essere raggiunta, e l’uomo, soprattutto le comunità di uomini, continuano a sbagliare, a ripetere sempre gli stessi errori, per paura, per disorientamento, per rabbia, ma anche per cattiveria. Questa de Er mostro de Roma, in scena al Teatro Trastevere dal 13 al 16 ottobre, è una storia crudele che ha colpito numerose vittime nella prima metà del secolo scorso a Roma: bambine innocenti stuprate e uccise; un ispettore schiacciato da una forza più grande di lui; Gino Girolimoni, morto, almeno all’apparenza, nel giorno in cui fu dato in pasto al mondo intero come assassino di bambine. Se la crudeltà di un singolo può fare molte vittime, allo stesso modo una comunità di persone ne può fare altrettante, senza armi.
Er mostro de Roma – con Massimo Genco e Simone Giacinti, diretto da Vanina Marini, scritto da Simone Giacinti e con musica dal vivo di Fabio Senna – racconta uno dei vizi più malvagi prodotti dell’essere umano: l’ingiustizia. Il colpevole? Il popolo di Roma. Non per campanilismo eh, ma sento di poter dire che sia una caratteristica di ogni comunità, di ogni massa quando è spinta dalla paura, costretta con le spalle al muro, quando l’unica via di uscita da un tunnel senza fine è fare finta di non vedere, coprire con superficialità una ferita profonda che non dà tregua.
Tra il 1924 e il 1925 vengono uccise a Roma diverse bambine, di età fra i 2 e i 6 anni. Rapite (prese per mano mentre giocano a nascondino), stuprate (con ano e vagina lacerati, come viene ripetuto spesso per sottolineare la ferocia dell’atto) e uccise (per poi essere trovate morte nude con le mutande in una mano). Una violenza inaudita che manda Roma in subbuglio: il coprifuoco autoindotto dei genitori ai bambini, una polizia allo sbaraglio, molti accusati e tutti innocenti, l’assassino in libertà. La città si scalda, “ribolle”, la vicenda si fa sempre più scottante, e dall’alto (leggi Duce) arriva un chiaro ordine: “serve un nome”. Ecco qua. Di solito quando si arriva a questo punto è la fine, e non un lieto fine. No, perché non serve a spronare a fare bene il proprio lavoro, serve a velocizzare un processo che richiederebbe più tempo. Ma è qua che il popolo romano cade vittima dei propri vizi intrinseci, dall’omertà dei primi tempi al fioccare d’accuse, grazie anche alla geniale idea di mettere sulla testa dell’assassino una grossa taglia, ma si sa “c’è qualcuno che per quei soldi si venderebbe pure la madre”.
Lo spettacolo racconta una storia di ferocia, ma anche, quindi, di ingiustizia. Di più, racconta il tema dell’amicizia, dell’umanità ma anche del potere. È una storia lontana nel tempo ma quanto mai vicina, soprattutto oggi che diventa sempre più facile gettare in pasto all’opinione pubblica chiunque non ci vada a genio, in un mondo cresciuto garantista che si sposta sempre di più verso un giustizialismo esasperato.
La stagione del Teatro Trastevere inizia benissimo con un testo molto emozionante e riflessivo, interpretato benissimo e, chicca molto apprezzata, accompagnato da una colonna sonora live.