World Builders: quando due mondi collidono

Dall’ 1 al 4 dicembre al Teatro Lo Spazio in via Locri va in scena una delle opere meno famose e più brillanti della scrittrice newyorkese Johnna Adams. Alla sua quinta produzione “off-off” dal Flux Theatre Ensemble, World Builders si aggiudica anche una produzione in Italia per la regia di Riccardo D’Alessandro.

Whitney (Sabrina Martina) e Max (Andrea Lintozzi) sono due ragazzi rinchiusi in un ospedale psichiatrico perché affetti da un disturbo schizoide della personalità. Entrambi vivono nel loro mondo, un mondo di fantasia a cui solo loro possono accedere. Costretti dalla famiglia a sottoporsi ad una cura sperimentale, ben presto scoprono che guarire significa dire addio al mondo che si sono creati per diventare membri funzionali della società. La vera domanda è: ne vale la pena? Essere felici vuol dire davvero uscire dalla propria testa per vivere come le persone “normali”? La normalità è davvero sinonimo di felicità?

I due protagonisti si presentano al pubblico seduti su una sedia con lo sguardo verso la platea; si tratta però di uno sguardo vuoto, che non mira allo spettatore ma a qualcosa di più profondo, difficile da cogliere. I loro volti sono incorniciati da due “finestre” al neon che si affacciano sui loro mondi, realtà immaginarie che solo loro riescono a vedere. Ma i punti in comune fra i protagonisti finiscono qui: sono infatti due opposti, costretti a coesistere nella stessa stanza d’ospedale.

Whitney è narcisista, logorroica, iperattiva: con fiumi di parole e ampi movimenti del corpo riempie la scena fino ad invadere prepotentemente lo spazio di Max, al contrario chiuso, riservato, silenzioso. I loro mondi gli assomigliano: Whitney immagina una distopia fantascientifica, con un complesso sistema di mondi e pianeti abitati da razze aliene con annessi centinaia di personaggi principali e secondari; Max, invece, vede solo una buca nel terreno, un bunker in cui osserva donne sole che per quanto cerchino di evadere finiscono sempre per morire.

La scenografia è semplice e volutamente asettica come ci si aspetterebbe da una stanza d’ospedale. Tutto ciò che è necessario è il corpo dei protagonisti che insieme alle cornici a neon ci permettono di accedere ai loro mondi. L’unico oggetto di scena è una teca, al centro del palcoscenico, che contiene un flacone di pillole. La teca che simbolicamente è posta tra i due protagonisti è un oggetto che progressivamente li allontana dai loro mondi ma li avvicina l’uno alla all’altro. Dimenticare un mondo, per chi lo ha creato e lo vive quotidianamente, significa perdere se stesso. Ma il vuoto che si va a creare può sempre essere riempito con qualcos’altro. Ed ecco che nasce qualcosa di nuovo, mai visto prima: l’amore.

Il testo di Johnna Adams rispettato fedelmente dalla regia di Riccardo D’Alessandro non racconta un amore da copertina, falso e blasonato. L’amore nasce spontaneamente, come risposta ad un lutto, quello di un mondo intero. Max è il primo ad accorgersi dei nuovi sentimenti e quando vede Whitney afflitta dalla scomparsa del suo mondo è pronto a stringerla tra le sue braccia per rincuorarla che “sarà lui il suo mondo”.

Oltre a presentare un’immagine originale ed inedita dell’amore, l’opera è anche una delle più sincere rappresentazioni della malattia mentale. Max e Whitney, grazie anche alla bravura dei loro interpreti, sono due personaggi che entrano facilmente nel cuore dello spettatore per la loro ingenuità e innata bontà d’animo. Vederli rinchiusi in una stanza d’ospedale, privati del loro mondo che è anche la loro essenza, li dipinge come animali in gabbia costretti ad essere ammansiti per poter essere lasciati liberi. Dopo la visione dello spettacolo è impossibile uscire dalla sala senza chiedersi se sia giusto o meno privarli della loro felicità per il rispetto di una norma comune. World Builders è un inno alla libertà, una canzone allegra che nasconde nel testo il dolore e la sofferenza di un mondo intero rinchiuso nei meandri della mente, che potrebbe sparire da un momento all’altro, senza lasciare nessuna traccia di sé.