WEST OF BABYLONIA, il documentario: la recensione

di Miriam Bocchino

 

 

Dal 5 al 15 giugno si è svolta sulla piattaforma online, messa a disposizione da MYmovies.it, la 16° edizione del Biografilm Festival.

Il festival, solitamente tenutosi a Bologna, dedicato ai film documentari e di finzione, è nato con l’intento di raccontare la contemporaneità per creare riflessione e confronto.

Tra le opere in anteprima mondiale è stato possibile assistere alla visione del documentario “West of Babylonia” del regista italiano Emanuele Mengotti.

Il film racconta la vita della comunità americana denominata Slab City, la cui popolazione risiede nel deserto, senza acqua corrente ed elettricità. Durante l’anno la comunità è composta da circa 400 persone mentre nel corso della stagione estiva diviene 10 volte tanto. I suoi abitanti, che si autodefiniscono “slabber”, sono hippy, neonazisti, artisti, fuorilegge o semplicemente persone che desiderano fuggire dalla realtà dei centri urbani.

Slab City nasce sul terreno di una base militare, attiva durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni ’50 le persone iniziarono a dimorarvi mentre negli anni ’80 si ebbe il vero e proprio boom di residenti.

“West of Babylonia” nasce dall’esperienza diretta del regista Emanuele Mengotti e del direttore della fotografia Marco Tomaselli che, per un periodo di tempo, hanno vissuto nella comunità, filmando i volti e le storie dei suoi abitanti. Per le riprese è stata utilizzata una camera a definizione 8k e i droni di ultimo modello, i quali hanno consentito di avere una visione del deserto dall’alto.

Il documentario è il primo capitolo di una trilogia americana.

L’opera è caratterizzata dalla totale assenza di un giudizio esterno, fornendo come unica possibilità di visione, allo spettatore, l’osservazione della routine quotidiana.

La telecamera, infatti, segue gli abitanti di Slab City e ascolta le loro parole “smozzicate e disadorne”, facendo intuire ciò che caratterizza le loro esistenze, senza, tuttavia, svolgere un ruolo di “indagine”.

Il deserto di Sonora attornia, con la sua stupefacente bellezza, la vita dei molti che rifuggendo il mondo hanno creato per sé un altro modo di esistere.

Babylonia è il nome che viene data alla società americana, in cui gli individui, colpiti dal Dio Denaro, sono niente e tutto contemporaneamente.

Il vento, elemento spesso presente nelle riprese, sembra accarezzare le esistenze di persone il cui mistero rimane insoluto. 

La telecamera riprende un bambino che scava la terra cercando tesori e subito dopo una donna anziana che si commuove cantando e suonando una canzone: due identità legate dal filo della fragilità.

Slab City e il suo silenzio viene interrotto solo dal rumore degli elicotteri che sorvolano il cielo; è presente accanto alla comunità una base aerea in cui svolgono ripetutamente dei test esplosivi. Aerei che preannunciano, nelle parole disordinate di un bambino, un’incertezza e un interrogativo sulle loro vite: riusciranno a rimanere in quel territorio?

Ciò che lo spettatore si chiede, nella visione del documentario, è chi siano le persone che osserva e quali storie nascondano. Ciò rimarrà sconosciuto ma è possibile, osservando i volti, intravedere, nella vacuità e contemporaneamente nell’espressione, l’esistenza intera.

La droga, la musica e gli animali, soprattutto i cani, sono elementi che si ripetono spesso nell’opera con una predominanza della musica.

Ad attorniare il paesaggio di Slab City vi è la “Salvation Mountain”, una piccola montagna artificiale, ricoperta di pittura acrilica, inneggiante all’amore e alla libertà, creata in onore a Dio.

Il suo ideatore è Leonard Knight, un ex sergente americano, che nel 1967 ebbe un’illuminazione. Si stabilì a Slab City e costruì la Salvation Mountain dove visse fino a pochi anni prima della sua morte, ai piedi della montagna, nella sua automobile.

Colpisce osservare, a pochi passi dalla comunità, la presenza dei turisti affascinati dalla montagna e da un messaggio di amore così lontano dalle loro esistenze quotidiane.

I paesaggi sono gli elementi che raccontano le vite degli abitanti della comunità: un territorio disseminato di camper, di cartelli indicanti le diverse strutture (il bar, la libreria) e di elementi che mescolano il sacro con il profano, divenendo qualcos’altro.

La solitudine delle esistenze viene interrotta da piacevoli avvenimenti, come la “Giornata del coniglio pasquale” o il “Ballo di fine anno”: momenti conviviali in cui si comprende come quelle persone siano davvero una comunità, pronta ad aiutarsi.

Le roulette e le strutture in ferro, nella notte, appaiono come giganti in grado di veicolare la solitudine e in cui la sofferenza emerge dalle viscere della terra.

Poche parole ma tanta osservazione, grazie alla pregevole fotografia, rendono l’opera estremamente interessante e godibile.

Le vite appaiono disadorne, disorganizzate e inconsapevoli: ma è davvero così?

Driftwood, Smiley, Liz, Tom, Shannon, Spider, Marienne, Ron: sono solo alcuni degli abitanti del deserto, di una comunità chiamata Slab City dominata da volti silenti che senza volersi raccontare riescono con la loro vita a rappresentare il mistero umano, mai svelato.