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“We live in time”: luce sulla narrazione del tumore ovarico

Florence Pugh e Andrew Garfield sul grande schermo con una struggente storia d’amore.

We live in time porta alla luce un tema cinematograficamente narrato poco e male. Quello delle malattie terminali femminili; in questo caso specifico, del tumore ovarico. Il film è diretto da John Crowley, con un’ottima performance della più che affermata Florence Pugh e di Andrew Garfield.

Mentre esce in accappatoio per cercare una penna con cui firmare le carte del divorzio, Tobias Durand viene investito da Almut Brühl (perfetta Florence Pugh, in vesti diverse rispetto a Dune – Parte II, di cui qui la recensione). Si conoscono in ospedale quindi, i due protagonisti di questa storia d’amore travagliata, vittima prediletta di un curioso destino. Uno coperto totalmente di bende, l’altra mortificata per l’incidente. Proprio per questa ragione Almut invita Tobias e la moglie a cena nel suo ristorante stellato. Qualche sera più tardi il ragazzo si presenta al locale, solo, ufficializzando il divorzio dall’ex moglie. 

Quella notte Almut e Tobias tornano a casa insieme. Da quel momento inizia una relazione, talvolta interrotta da incomprensioni e piani diversi per il futuro. A spazzare via ogni cosa è la notizia appresa dalla protagonista di avere un cancro alle ovaie. Su consiglio del ginecologo, sarebbe meglio effettuare una isterectomia per prevenire un peggioramento. Visto il desiderio di Tobias di diventare genitore, Almut decide di sottoporsi al trattamento finché il suo cancro non andrà in remissione. 

Dopo svariati tentativi Almut riesce a rimanere incinta della piccola Ella, che nascerà a capodanno in un autogrill. Tre anni dopo, la protagonista apprende l’avanzamento del cancro al terzo stadio. Ora dovrebbe quindi fare un’altra cura e poi un intervento, senza alcuna garanzia che questi funzionino. Almut decide di accettare, nonostante fosse più convinta di voler vivere pienamente i suoi ultimi mesi, senza l’indebolimento di un trattamento dalla funzionalità incerta. Tobias chiede lei di sposarlo e le viene contemporaneamente proposto di partecipare al Bocuse d’Or, una prestigiosa competizione di cucina che non risulta la scelta ideale da abbinare alle cure a cui si deve sottoporre. 

A questo punto ci si scontra con una delle tematiche centrali quando si tratta di narrare una malattia terminale. Quella dell’autorealizzazione mista alla paura di essere dimenticati. Ma non solo. Nella scelta di Almut di partecipare alla competizione c’è anche il desiderio di dimostrare alla figlia di non essersi arresa, di essere stata forte e averci provato, specchio forse di un ancor più profondo senso di colpa di abbandonare sua figlia. 

Trovare spazio per la narrazione di malattie terminali femminili è importante. Ci sono questioni che riguardano prettamente aspettative, stereotipi e ruoli attribuiti a una persona socializzata donna. È quindi fondamentale che se ne parli, tanto per le vittime quanto per tutto il resto della società, per rendere consapevoli le persone che determinati meccanismi esistono e hanno delle conseguenze sulla vita delle stesse e di chi le circonda. 

We live in time lo fa abbastanza bene, cercando di trattare con sensibilità molte delle problematiche che una donna, con una carriera, un marito e una figlia, deve affrontare in una situazione tanto tragica e delicata come questa. Scegliere il lavoro sul matrimonio, scegliere di investire il poco tempo rimasto in un obiettivo strettamente personale. La ripartizione delle responsabilità familiari. La scelta di una malattia che colpisce un organo strettamente legato alla maternità.

Il tempo poi, come si evince dal titolo, è probabilmente il maggior protagonista del film. Con una narrazione tutt’altro che lineare, piena di flashback e flasforward, la regia gioca a far percepire la fluidità e l’inesorabilità del tempo. Si crea così quel senso di malinconia che nasce dalla consapevolezza dell’impotenza umana di fronte a un tale concetto. Sono però emozioni considerabili positive. Emozioni volte a far riflettere su quanto ci si debba godere anche i più piccoli attimi, come unici e irripetibili. 

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We live in time è una storia d’amore, di malattia, di resilienza, di vita. L’importanza del tema affrontato, la narrazione complessa sul tempo e l’ottima performance degli attori alzano l’asticella di un film a cui non mancano stereotipi e cliché abbastanza ricorrenti, inseriti in una cornice narrativa talvolta scontata, dall’impronta hollywoodiana più canonica.

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We live in time (Tutto il tempo che abbiamo) – regia di John Crowley – con Florence Pugh e Andrew Garfield – Sceneggiatura: Nick Payne – Scenografia: Alice Normington e Sarah Kane – Costumi: Liza Bracey – Montaggio: Justine Wright – Musiche: Bryce Dessner – Fotografia: Stuart Bentley – Casa di Produzione: StudioCanal, Film4 Productions, Sunny March, Shoenbox Films, Canal+ e Ciné+ – Paese di produzione: Gran Bretagna e Francia – Anno: 2024

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