di Federica Ranocchia
Siamo al Teatro Trastevere e sta per andare in scena il monologo “Viviamoci” scritto, diretto e interpretato da Giorgia Mazzucato, testo vincitore del Fringe Festival 2017 a San Diego e di altri riconoscimenti. In sala si percepisce un particolare entusiasmo, le luci si spengono. Poi se ne accende una flebile, azzurra, in lontananza.
Il palcoscenico in penombra accoglie le parole che introducono la narrazione, quello che ascoltiamo è un esplicito invito al percepire la vita per quello che è e per quello che sarà: un’avventura imprevedibile. Attraverso la metafora della nave che naviga in mare aperto, la scenografia si lascia immaginare.
La scena si illumina, Aurora e Capitan Vento, un orsacchiotto vecchio e consumato, sono pronti a partire! La storia a cui stiamo per assistere viene preceduta dal bizzarro prologo interpretato dalla voce acuta di Aurora, frenetica, energica bambina profondamente attaccata alla figura materna.
La fervida immaginazione di Aurora ci trascina in un interessante gioco di scrittura e interpretazione nel quale le parole diventano azioni e cose. Il mondo esterno e quello interno si fondono sotto una lente d’ingrandimento capace di evidenziare le bizzarrie del linguaggio. Magicamente si passa da un universo musicale a uno pittorico, improvvisate sull’attualità e sarcasmo si fondono nell’ambiente dove Aurora si dimena, giocando con assonanze e similitudini tra termini di settore e paradossi linguistici.
Tuttavia, questa simpatica parentesi si chiude in fretta. In un lampo si torna alla narrazione che abbandona con violenza il metafisico – rivelandosi una mera caratterizzazione del personaggio di Aurora – per dedicarsi al racconto della vicenda. Essa si snoda attorno all’interrogativo del padre di Aurora, Francesco, che la piccola non ha mai conosciuto.
I personaggi vengono evocati uno dopo l’altro, in un’alternanza che non annoia.
Così ci viene presentata Francesca, la madre, nelle vesti di una bambina serena e gioiosa. Francesca crede nell’amore e non può fare a meno di raccontarlo teneramente al pubblico. La storia inizia a svelarsi con l’incontro tra lei e Francesco. La dolce impennata dei loro reciproci sentimenti li accompagnerà nella crescita e nella realizzazione di un solido e puro ambiente familiare.
La fiabesca storia d’amore viene bruscamente interrotta dall’entrata in scena di Maicol Bordignòn, anch’esso bambino, si presenta decantando già dalle prima battute una personalità in netto contrasto con quella degli altri personaggi. Disincantato e materialista: il suo unico sogno è quello di aggiungere « E Figlio » all’insegna dell’Officina Bordignòn, ereditandola dal padre.
L’ossessione per le « sette lettere luminose » lo condannerà a un vivere pratico, privo di sogni bambini. Nel raccontare se stesso Maicol confessa una disillusione totale anche nel gioco infantile, definendo lui stesso quello che fa in compagnia del suo peluche come una “sospensione della credulità”.
Al di là delle apparenze, l’aver sacrificato l’infanzia condurrà Maicol ad un eterno bilico tra sogno e realtà. L’ epilogo si compie la sera in cui, finalmente, il padre decide di affiancare « E Figlio » all’insegna dell’officina. La gioia di Maicol si riversa in una nottata di festa che si concluderà tragicamente in un incidente in cui rimarrà coinvolto il padre di Aurora.
La storia, certamente non immune a sofferenze, rimane leggera soprattutto grazie alla genuina interpretazione della Mazzucato che dona al monologo un sotto testo che inneggia alla vita nonostante tutto. «La vita è la cosa più bella che c’è, anche perché è l’unica cosa che c’è », la barca su cui naviga “Viviamoci” si trova in una costante lotta tra tumulto e tregua, tra l’amore e il dolore, in balia del mare: com’è la realtà di ogni uomo.