Il fragore del mare, la sua distesa sconfinata, s’intravede all’orizzonte una figura vestita di rosso, una donna con la testa reclinata, lo sguardo assorto. Nel veloce passaggio da campo lungo iniziale a primo piano si apre “Unstoppable soul”, cortometraggio di Claudio Proietti che fa della rappresentazione dell’ambiente naturale lo spunto per la narrazione di una personale memoria.
La spiaggia appare deserta, la donna solitaria: a interrompere il suo silenzio è un uomo nelle vesti di un passante che, estraneo all’apparenza, sembra avere con lei un legame misterioso, un vincolo ancora inimmaginabile.
D’un tratto, il contesto cambia: l’interno di una macchina, la panchina di un parco, poi di nuovo la riva dove continuano a scrosciare le onde.
“Posso farti una domanda? Te lo ricordi come ti chiamavo quand’eri ragazzina?” – il tempo della storia, che risultava scisso dal tempo del discorso, si ricongiunge ad esso andando a sanare la discontinuità dell’inizio: si articola su tre spazi il dialogo tra un padre e una figlia portando all’emergere dei turbamenti di lei, delle sue preoccupazioni.
Cosa ha condotto al manifestarsi dell’incomunicabilità? Qual è l’origine della disperazione che in più momenti sembra trapelare dalle loro parole?
“Anima inarrestabile, così mi chiamavi. Come quella canzone che stavi scrivendo per me” – non persona in carne e ossa ma fantasma della mente, la figura paterna si ripresenta nei pensieri della donna come personificazione nostalgica di un vuoto: lui è morto troppo presto.
Lo sguardo del padre, colto in un primissimo piano, è placido, trasognato; quello di lei è scosso da una disperazione crescente: unico e necessario detonatore dei ricordi, l’immagine del genitore permette una catarsi, un pianto così necessario per la figlia da condurla all’accettazione di ciò che non c’è più.
In un contesto dove evocazione e concretezza si alternano rapidamente fino ad arrivare a fondersi, si colloca l’interpretazione di Duccio Camerini che interiorizza magistralmente il carattere serafico del suo personaggio e quella di Valeria Zazzaretta che riesce a trasferire sul piano della mimica del volto tutta la sofferenza a cui è legato il suo.
“Ti sogno tutte le notti, papà” – nel breve arco di nove minuti il regista riesce a costruire una narrazione nitida e stratificata che nella scelta dei dialoghi, nella successione dei piani, nella costruzione dei personaggi, permette la restituzione del loro complesso vissuto.