Tra assurdo metafisico e commedia dell’arte
Difficile un discorso equilibrato su L’uomo sottile, di Sergio Pierattini, di recente al Teatro Lo Spazio di Roma e stanti le generose doti di attore spese in scena da Massimo Reale, spiace dover concordare in gran parte con quanto ne diceva Marcantonio Lucidi, già un anno fa
Il monologo però non si eleva, non illumina i principi universali grazie ai quali lo spettatore dovrebbe riconoscerne la qualità allegorica e la finalità morale.
Resta il racconto dei sottoscala in cui si escogitano i machiavelli per il Palio.
Interessante, ma non molto diverso da un buon reportage giornalistico dalla “pancia” della città. Notoriamente il mondo è pieno di posti dove si complotta e si corrompe, e
a teatro non basta il racconto per passare dal particolare al generale,
Lucidi critica così l’ambizione asserita nel testo di presentazione che lo spettacolo sia
metafora del nostro tempo caratterizzato dalla menzogna, da una verità deformata da narrazioni ambigue e strumentali.
Tuttavia, pur sottoscrivendo, penso che il discorso sia più complesso, e che si possa ragionare su potenzialità presenti ma sprecate, e su direzioni contraddittorie messe in atto nella rappresentazione.
La situazione portata in scena è legata agli usi e costumi del Palio di Siena, vivacemente (ma bene poco teatralmente) riassunti al microfono, su un palco laterale, a luci accese, da Giovanni Mazzini – storico del Palio di Siena.
Una competizione selvaggia e rituale dove quasi conta più non far vincere l’altro che vincere in proprio, e solcata da profonde sotterranee passionalità, compravendite, corruzioni, dove il veicolo di tutto ciò diventano i fantini.
Il caso presentato qui è quello di un immaginario Andrea Rambaldi, detto il Boia, che come tanti tradisce per soldi la propria contrada, e che come tutti i fantini, è l’archetipo del mentitore costituzionale.
Il pretesto alla drammatizzazione sarebbe a questo punto un suo ipotetico sequestro punitivo. Ma non si chiarisce mai ad opera di chi. Compare deietto in scena, crollandovi con un tonfo da destra, accasciato, e coi polsi legati da una rozza corda.
Comincia allora la geremiade delle sue patetiche strategie per ottenere la libertà.
A questo punto il testo potrebbe prendere almeno tre strade; forse anche quattro.
E purtroppo non ne prende nessuna, o solo in parte, pur contenendone la possibilità.
Potrebbe agire la via politica, infierendo sui meccanismi del Palio, sulla corresponsabilità dei corruttori; potrebbe sviluppare la mostruosità selvaggia della violenza insita in questi riti di massa; potrebbe usare il protagonista per una vivisezione, oscillando tra il carattere, alla Molière, ed abissi psicologici.
Infine, sviluppando l’implicito presente nell’indeterminatezza dell’identità e delle motivazioni dei carcerieri, potrebbe slittare verso una dimensione metafisica kafkiana, dove l’agitarsi della vittima in un auto processo risulta proporzionale al silenzio ambiguo (e potenzialmente metafisico) della controparte.
Ed è questa del resto la dimensione più interessante dello spettacolo, il silenzio che si contrappone all’agitazione patetica ed istrionica della vittima.
Infine, ed è un quinto punto che non contraddice in toto la dimensione metafisica, si potrebbe spingere sul pedale comico presente in questo metodico impostore popolaresco. E un po’ questa via traspare, nelle continue svolte delle narrazioni di giustificazione che la vittima esibisce all’occulto ascoltatore (ma forse al pubblico) nel tentativo di contrattare la propria liberazione, scivolando tuttavia sempre più nel vuoto che apre il silenzio di qualsivoglia risposta. Il patetismo della vittima qui allora gira alla commedia dell’arte, tra Arlecchino e Pulcinella, e l’abile e multiforme Massimo Reale strappa qualche risata al pubblico.
Ma risate facili e sperse nel nulla, perché né si ha il coraggio di approfondire questo versante giullaresco, né quello di spingere più a fondo il pedale del tragico, che pure mi pare la parte più riuscita della performance di Massimo Reale, nei suoi sbattimenti fisici, ginocchioni e in piedi, nei sapienti controcanti ritmici dati dalle improvvise pause tra uno spezzone e l’altro della logorrea disperatamente difensiva, pause dal volto esterrefatto ed indifeso, dove la menzogna appare fragilità inerme che guarda se stessa, e la pausa disperata macerazione della prossima mossa per la sopravvivenza.
La dimensione dominante tuttavia è il patetico, ma un patetico di superficie.
Non c’è un vero scavo del carattere, ma al massimo una dimensione infantile, l’infantilismo del carattere superficiale di un popolano che vuole solo commuovere il boia. E così sciorina la storia di una infanzia da orfano precoce, di una precoce passione per il mestiere di fantino, come sogno duramente inseguito, costruito raggiunto, mentre i compagni di scuola entravano in banca. E all’insegna di questa passione e purezza nega all’inizio di essere un corrotto, poi giustifica il cedimento, poi accusa anche i corruttori.
Anche in questo lato infantile ci sarebbe una possibilità poetica, se approfondita.
Un perdono implicito per simpatia, ed in parte la regia lo segue.
La scena infatti è nuda, icastica.
Solo alle sue spalle una parete a quattro pannelli, a volte nuda parete, nel vuoto del silenzio, a volte superficie di proiezioni.
All’inizio, prima della deiezione in scena del protagonista, proiezione di un documentario sul palio, che si conclude con gigantografia delle zampe dei cavalli in corsa, quasi a farceli venire addosso.
Più avanti tuttavia base di proiezione di icastici disegni di un fumettismo spettrale, che dovrebbero personificare i sogni, la purezza infantile.
E’ lì che compare l’uomo sottile che dà il titolo allo spettacolo, e che è l’omino immaginario di suoi sogni infantili che lo spinge a diventare un fantino.
Ed è lì che compare, disegnato dietro le grate di un abbaino a livello strada (lui carcerato in uno scantinato), un bambino, che guarda silente, e che sarebbe il suo carceriere.
E’ la personificazione della sua innocenza perduta che lo accusa?
L’idea rimane larvale, ma quest’idea del silenzio ha una sua poesia.
E il naufragar gli è amaro in quel mare, e non c’è redenzione.
“Potevo cambiare, vincere. Non ce l’ho fatta. Mi apri?! Sono stato sincero!”
Sembra il discorso di un bambino.
Ma il silenzio lo condanna, mentre annaspa, e le luci si spengono.
Ed il silenzio scelto da Manuela Mandracchia come cifra registica alla fine ha un suo perché, anche se resta la perplessità di fondo di un testo che non spinge a fondo una propria dimensione teatrale di conflitto, e non sa dare pienamente ragione di un suo perché.
La suggestività tuttavia paga, ed il pubblico aderisce con calore.
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L’uomo sottile, di Sergio Pierattini – con Massimo Reale – supervisione artistica Manuela Mandracchia – introduzione a cura di Giovanni Mazzini – scene e videoproiezioni Susanna Proietti – disegno luci Valeriano Solfiti – contributi audio/video Federica Toci – costumi Sandra Rosadini – Teatro Lo Spazio, Roma, 12-13 Marzo 2025