Attraverso il teatro ci poniamo sempre e in ogni epoca il problema di mettere in scena il controverso dialogo tra ciò che è bene e male per noi. Tanto che spesso è possibile parlare di questo o quello spettacolo senza necessariamente ricostruirne, nei minimi dettagli, i presupposti storici e ideologici, perché si tratta di questioni che stanno sotto gli occhi di tutti, di cui quotidianamente si parla e su cui tante volte ci si è confrontati. Ma di fronte a un testo come “Processo a Gesù” di Diego Fabbri, andato in scena al Teatro Quirino durante la settimana di Pasqua, una semplificazione di questo tipo non è lecita. Lo si legge nell’invito alla complessità scritto dal regista Geppy Gleijeses, nelle sue ‘note di regia’ sui generis, ma anche, più semplicemente, a partire dalla trama dell’opera.
Un gruppo di giudici, scampati alla Shoah, mette in scena ogni sera un processo, per comprendere le ragioni che hanno condotto alla condanna di Gesù, per valutare la colpevolezza dei suoi accusatori. Ci si affida ai fatti, secondo Elia, che non solo è a capo di questa ‘equipe di ricerca’, ma è anche professore all’Università di Tubinga, celebre roccaforte della cultura tedesca (nota per aver ospitato, tra gli altri, Hölderlin, Hegel e Schelling). Il grande cruccio di questo professore-profeta, interpretato dallo stesso Gleijeses, é:
ELIA Voglio dire sul monte Calvario: cosa accadde veramente? Quella crocifissione fu soltanto una dolorosa crudeltà umana o invece una colpa ben più grave, smisurata, che in qualche modo ci segue? — Per cercare un po’ di verità ho messo assieme questa rappresentazione ormai antica.
Mi pare opportuno notare due aspetti cruciali dell’impostazione di Fabbri, che, se da un parte mette al centro della scena tutta la problematicità (e l’ingiustizia) di un popolo, quello ebraico, costretto all’esilio e braccato nella condannata, dall’altra non riconosce mai la responsabilità cruciale che, in questo processo, ha avuto il pensiero cristiano. E ciò avviene, conseguentemente a quello che è un clima generale e dominante, in quegli anni, in Italia di deresponsabilizzazione rispetto alla Shoah. Tanto che, come dimostra Elena Mazzini
“Le recensioni apparse sulle riviste della stampa cattolica italiana hanno testimoniato il tipo di interpretazioni date agli eventi luttuosi della storia ebraica, Shoah inclusa, configuratesi in termini sostanzialmente provvidenzialistici e fedeli allo schema colpa-espiazione richiamato più volte lungo il testo”. [ E. Mazzini, Il Processo a Gesu’ di Diego Fabbri e i commenti della stampa cattolica italiana, in Antisemitismo e chiesa cattolica in Italia (XIX-XX sec.). Ricerche in corso e riflessioni storiografiche, 2001].
In altre parole, quello di Fabbri è sì – come lo definisce Gleijeses – un ‘capolavoro’ già nel modo in cui è redatto, in una scrittura ricca di transazioni, evocativa, piena, ma è anche un’opera controversa e scandalosa, perché nei meandri della sua straordinaria erudizione si nascondono delle tendenze chiaramente antigiudaiche, forse persino inconsapevoli. Lo denuncia, in maniera assai lucida lo storico Stefani, quando scrive:
“L’elemento equivoco del suo procedere sta invece nel non essersi liberato da alcuni stereotipi cristiani sugli ebrei. Ciò risulta particolarmente evidente in due punti. Prima di tutto gli ebrei sono definiti in base al fatto di non avere fede in Gesù, perché chi ce l’ha diviene, proprio per questo, cristiano. In secondo luogo la travagliatissima vicenda storica ebraica crea un problema di interpretazione legato a un destino singolare e inquietante che deve trovare spiegazioni di ordine non semplicemente mondano”. [P. Stefani 2004, Le origini dell’antigiudaismo cristiano, in Fortis U. 2004].
Il modo in cui Fabbri guarda all’altro, ai poveri, ai nemici e agli sconfitti è sempre, se non in poche e sporadiche occasioni, governato da una logica cristiana, che certamente rimane coerente con il suo progetto, ma che non dovrebbe essere messo in scena in modo così letterale. Il teatro è per sua stessa vocazione un tradimento, una riscrittura, interpretazione della parola scritta che prende vita, incarnandosi sulla scena. E si badi bene, questa non è una questione di ‘gusto’, ma un’opinione a mio avviso, storicamente verosimile. Basti pensare al fatto che nella religione cristiana, fin tanto che la Parola è stata presa alla lettera, il teatro è stato proibito e condannato.
Se la decisione di Paolo Grassi di portare nel ‘55 “Processo a Gesù” al Piccolo con la regia di Orazio Costa può ancora dare adito a sorprese, quella di metterlo oggi in scena è una presa di posizione, senza dubbio, radicale. Di questa scelta credo sia apprezzabile, soprattutto, la volontà di riesumare un autore tanto agile e prodigioso nella scrittura, senza dubbio straordinario, le cui posizioni provocano scandalo e sconcerto. In quest’epoca in cui la democrazia si è fatta spettacolo, in maniera sempre più paradossale, lo scandaloso dissenso provocato dalla visione di “Processo a Gesù” implica, allora, il tentativo di ritornare al dibattito e al pensiero, anziché alle tifoserie e alle urla televisive.
Funzionale a questo obiettivo, nonostante qualche difficoltà ritmica, appare la sobria regia di Gleijeses. Si sfrutta, così, da una parte tutta la potenza scenica offerta dal confronto tra pubblico e platea e, dall’altra, si lascia spazio all’intimità dei dialoghi privati come quello tra Sara (Daniela Giovanetti) e Davide (Marco Cavalcoli). E nondimeno, rimane il dubbio che l’istanza politica ineludibile del dramma venga meno, all’interno del progetto registico, che, sopraffatto dalla parola, non ne governa fino in fondo le redini, con il pericolo di scivolare in quell’ “elemento equivoco del suo procedere”.
PROCESSO A GESÙ – Teatro Quirino dal 12 al 17 aprile
- GEPPY GLEIJESES
di Diego Fabbri
con MARCO CAVALCOLI DANIELA GIOVANETTI GIOVANNA BOZZOLO
- e MARIA ROSARIA CARLI FRANCESCO MEONI PAOLA SAMBO
MASSIMO LELLO LEONARDO SBRAGIA SERGIO MANCINELLI
FRANCESCO LARUFFA ANTONIA RENZELLA YASER MOHAMED
CECILIA ZINGARO PAVEL ZELINSKY FRANCESCA ANNUNZIATA
GIACOMO LISONI GIORGIO SALES LORENZO GUADALUPI - musiche Teho Teardo
artigiano della luce Luigi Ascione - regia GEPPY GLEIJESES