In questi giorni ha fatto ritorno a Roma la trasposizione a teatro di un grande classico del Novecento, Un tram che si chiama desiderio. Titolo di un testo che, nel ’48, a pochi mesi dalla pubblicazione, fruttò il Premio Pulitzer all’autore Tennessee Williams. Scrittore acuto e visionario, fu il primo a prendere in mano la macchina da scrivere e mettere in discussione il tanto osannato modello culturale stars & stripes; il primo ad alzare il tappeto del conformismo per sviscerare deviazioni, distorsioni e ipocrisie.
L’ indagine di Williams ha ispirato celebri film e produzioni teatrali, e lanciato nel firmamento la stella di Marlon Brando.
“Un tram che si chiama desiderio” è ora in calendario a Teatro Quirino, fino a domenica 6 febbraio. La firma è di Pier Luigi Pizzi, regista di fama internazionale che da sempre lavora nel segno dell’eccezionalità. Anche questa volta ha fatto centro, confezionando un lavoro fedele nell’impostazione al plot di Williams ma arricchito da tocchi di genio nell’impostazione dei dialoghi, nei rapporti tra i personaggi, nella gestione della tensione emotiva sul palco e nella scenografia.
Lo svolgimento – un unico atto di 2 h e 15 minuti, intervallato solo da brevi cambi di luce sapientemente guidati da Luigi Ascione – avviene all’interno di un complesso di case popolari, i “Campi Elisi” di New Orleans. Un monolocale seminterrato, angusto e disordinato, collegato al mondo e alla luce da una rampa di scale. Su e giù per queste scale è un alternarsi di azioni e di stati d’animo. Scendendo, queste scale, entra in scena Blanche DuBois, una superlativa Mariangela D’Abbraccio. Un’elegante signora adulta che teme il trascorrere del tempo e che per questo cura il proprio aspetto in maniera spasmodica. Lo fa anche per distrarsi dai demoni del suo passato, dalla delusione di un matrimonio interrotto per un tradimento. Blanche aveva scoperto la relazione del marito, poi venuto a mancare, con un altro uomo. Delusione e dolore l’avevano resa vulnerabile, indirizzandola verso la via dell’alcolismo e aprendo il fianco a comportamenti giudicati riprovevoli dalla morale americana. A scuola ha un flirt con un alunno, lo scandalo viene a galla e per questo viene sollevata dall’incarico. Si trasferisce in un albergo di quart’ordine, lì si offre a diversi uomini. Ma il paese è piccolo e le voci corrono, si scopre anche questo e la comunità di Lafayette dice basta, non la vuole più. La casa le viene pignorata, per Blanche non resta che partire a bordo di un tram (di nome) “Desiderio” per raggiungere l’unico porto sicuro rimasto, la dimora della sorella Stella. Sono trascorsi diversi anni dal loro ultimo incontro. Stella, interpretata dalla brillante Giorgia Salari, è una donna indipendente, pratica e solare. Ha trovato l’amore in Stanley, operaio di sangue polacco, un Daniele Pecci che incarna il tipo dell’uomo di poche parole e maniere ruvide. Il fisico statuario e i suoi atteggiamenti spavaldi “fanno uscire pazza” la sua Stella. Che, vinta dal furore erotico, finisce ogni volta per perdonargli gesti prepotenti e, a volte, persino violenti. Stella è incinta e alla fine diventerà mamma.
Ma Stanley non convince Blanche, sin dal primo contatto. E’ totale idiosincrasia.
L’intera narrazione viene giostrata su questo dualismo, con punzecchiature di Stanley che diventano malessere verso l’ospite fino alla “punizione” dello stupro. Ciò che accade, quella notte in quel bagno, è il colpo di grazia per la tenuta emotiva di Blanche, che perde il senno e, nel finale, viene destinata ad una struttura psichiatrica. A nulla era servito tornare a credere nell’amore salvifico dopo che l’ingenuo Mitch (Eros Pascale) si era avvicinato con modi galanti e un po’ nerd a questa signora più grande. Salvo poi voltarle le spalle, soggiogato dal bigottismo e dal perbenismo dominante.
In America funziona così: ogni individuo, sin dall’infanzia, deve salire sul proprio tram e seguire il percorso che gli schemi economici e le convenzioni socio-culturali hanno a ciascuno assegnato. Williams fa intendere che non vi è spazio per deviazioni, al massimo si può deragliare. Ma ci si fa molto male. Lo spettacolo tratteggia una Blanche DuBois come personaggio fuori luogo e fuori tempo. Ha una sensibilità spiccata, è sognatrice e libera pensatrice. Pretenziosa e logorroica. Fragile e nevrotica. Ingenua anche per scelta. Non crede ci sia del male a bere un bicchiere di whisky o a salutare un giovane ragazzo delle consegne con un bacio sulla bocca. Vede nel cielo e nella luce una via di fuga che nella realtà per lei non esiste. Viene “punita” con la violenza sessuale perché con la perdita della piantagione di famiglia preclude a Stanley ogni minima possibilità di crescita economica e dunque di ascesa sociale. La svolta invece non è più possibile e così il circolo dello squallore in quel monolocale avrà da ripetersi ancora per molto tempo. Tra giornate sempre uguali, partite a poker alcoliche tra uomini, scatti nervosi e nottate bollenti sotto le coperte. Con in più un bambino da crescere.
Gli slanci emotivi di Mariangela D’Abbraccio sono intensi e sofferti. Il delirio e l’insofferenza per una vita senza costrutto vengono solo in parte smorzati da una Giorgia Salari che è elogio della vita semplice, fatta di istinto e inerzia. Una Stella molto terrena.
Un cenno anche per agli attori che hanno offerto contorno allo spettacolo: Erika Puddu (Eunice), Massimo Odierna (Steve), Giorgio Sales (Pablo), Francesco Tavassi (il dottore) e Stefania Bassino (l’infermiera). Tutti ben inseriti nella drammaturgia.