Un canto d’anima su un’Africa che ci interroga a Teatrosophia
Tutta la vita di Giancarlo Di Giacinto è stato un grande atto d’amore verso l’Africa, ed è dunque un atto d’amore di Bruno Petrosino aver voluto trasporre per le scena il suo mémoire, Karibuni, dove narra della propria pluridecennale frequentazione del continente, a cominciare dai suoi vent’anni. Una frequentazione ‘immersiva’ che, pur non cancellando il confronto culturale, lo porta ad annullare le distanze che a suo parere la maggior parte dei bianchi residenti parevano mantenere. A tal punto che decide di imparare lo swahili, diventando traduttore ufficiale per l’ambasciata, dallo swahili in italiano e viceversa, di articoli di giornale, ma anche di letteratura europea.
Per esempio fa mettere in scena in swahili il Giulio Cesare di Shakespeare, ed organizza nel lussureggiante anfiteatro della natura africana concerti di musica classica, ma soprattutto d’opera. Bello in tal senso quando racconta della trasfigurazione delle arie di Violetta (Traviata) in tale contesto. In tutto questo percorso gli è guida interiore la sua amata governante africana, Mama Marta, analfabeta, ma saggia e protettiva, e vitalissima. Sarà da lei che capirà che bisogna accettare anche la diversità irricevibile, come la pratica della clitoridectomia. Mama non capisce cosa ci sia da obiettare: è la tradizione, da generazioni. Ma l’Africa è tanto altro. Per esempio, rigida è la separazione ambientale tra uomini e donne; ma poi esiste perfettamente inserito una sorta di femminiello all’africana, il mashonga, che veste femminile, e può fare da tramite tra i due mondi, per es tra i fidanzatini che non si devono incontrare. E poi c’è il safari, che gli europei hanno travisato come tour di caccia, mentre per gli africani è solo viaggio, così come le memorie di Di Giacinto verranno definite qui un ‘safari dell’anima’. E poi ci sono gli alteri Masai, razzisti verso lo swahili, e la loro Africa tradita, 20 anni dopo, quando li rivede col cellulare e fluidamente swahilofoni. E c’è la gioiosa napoletanità surreale di un bambino che gli vende una aragosta non ancora pescata.
E ci sono le notti di luna, il mare, la tempesta, i rumori animali nella giungla, ed i riti di iniziazione degli adolescenti, con danze frenetiche.
Diversità e somiglianza si mischiano in una vertigine di umano, dove tutto è molto più forte che in Europa. Uno spazio altro dove Di Giacinto, ascoltando l’altro può ascoltare se stesso e la voce del cuore e dei sensi allo stato vergine. Perché abolendo la distanza si sente il legame. Perché come gli dice una donna che lo ringrazia di averla accompagnata all’ospedale, “Il sangue è rosso per tutti”.
Una illusione sentimentale ? Una realtà ? Una volontà ? Vita e morte si intrecciano in Africa allo stato primordiale, ma la violenza non sembra essere del continente quanto degli europei, cacciatori nei safari, violentatori di tradizioni, feroci ora con chi varca il Mediterraneo.
Commovente in tal senso l’immaginare di aver dato pensiero al bufalo morente che si fa domande smarrito sul suo predatore umano. Un atto d’amore dicevo, che tuttavia si fa teatro in modo discontinuo, procedendo la narrazione a onde, per collages di aneddoti. A commuovere dovrebbe essere la presenza in scena del protagonista; e sicuramente fa tenerezza, e commuove la sua generosa identificazione. Gli manca però presenza scenica. Tendenzialmente statico nel corpo, la sua narrazione ha un tono pacato, cantilenante, senza reale sviluppo emotivo o narrativo.
A questo pone riparo tuttavia la regia, con un crescendo di fantasmagorie, la reduplicazione del narrato sul corpo di Petrosino e nelle musiche di Andrea Causapruna, che se qualche volta rimangono nel pittoresco – con il rischio di un macchiettismo illustrativo – man mano esplodono in incarnazioni più intense.
Le musiche di Causapruna, che sta in scena con la chitarra e altri strumenti, lievi all’inizio, quasi in sordina, virano poi a torsioni elettroniche, ed esplodono più volte in deliri percussionistici afro, a cui si associano danze frenetiche di Petrosino.
Anche i quadri proiettati dietro seguono la stessa curva. Prevalentemente didascalici, inizialmente illustrano e basta. S’impennano tuttavia quando, a breve distanza, prima compare la testa di un bufalo, poi il suo teschio.
La vera anima tuttavia sono le apparizioni di Petrosino, che intanto, va detto – e questo già di per sé è teatro – si diverte come un pazzo, nel trasformismo costumistico iper coloristico, ma anche nel recitare in swahili la parlata dei personaggi evocati.
Così è comico nel fare la parlata di Mama, e divertito tra mossette e danza quando fa il Mashoga (femminiello).
Decolla però il tutto quando si va sul registro serio. Eccolo allora con una suggestiva tunica a bicolore verticale bianco e nero (il bene e il male?) recitare convinto il Giulio Cesare di Shakespeare in swahili (duplicato in italiano sullo schermo).
E’ il segnale del tragico. Ora dietro, paesaggio notturno, in blu. Tempesta. Musica elettronica. Poi il teschio del bufalo. Morte!
E Petrosino in ginocchio che ne recita i pensieri. Mesto. Stupefatto. Poi esplode il suo meglio, fuori ora da ogni illustratività. Fiammeggia di lento dolore gestuale. Si contorce. Fiammeggia un braccio teso in alto, come chi sta per inabissarsi. Poi in piedi ondeggia, braccia ad ali.
E’ questo il vero Petrosino – o comico leggero, o tragico e gestuale – mentre talvolta stereotipico quando va sull’estatico poetico sentimentale.
Ci piace l’inventore di gesti, l’anima nel corpo. Così è superbo nella danza che segue, come reazione vitalistica. A torso nudo. Al collo una lunga collana rosso corallo, a sonagli, usata come oggetto gestuale e contromossa. Comincia lento, poi accelera, torcendosi come in un sincopato salto della corda. Poi quiete. Lui a terra. Poi se ne va. Dissolvenza.
Seguono parole sulla schiavitù, sui Masai e la libertà. Poi la fratellanza (Il sangue è rosso per tutti), e Petrosino, in gonnella rosso sangue canta splendidamente una struggente canzone in swahili. Breve flash sull’Africa anni novanta. Altra canzone. I riti di iniziazione.
Lo spettacolo sta tramontando. Si torna alla monodia di Di Giacinto. Scandisce la morale, pacatamente. “L’Africa è stata un dono che la vita mi ha fatto. Il senso di questo racconto è il dono. Vi restituisco un safari dell’anima.
Ora sono uno di fronte all’altro, vicini, silenti. Si scambiano gesti di tenerezza, e sguardi. Petrosino ora è vestito. Giacca nera. Elegante. Cominciano le percussioni. Ballano, delicatamente, lento. Poi un po’ discosti. Di Giacinto sempre accennato. Petrosino esplode, frenetico.
Una danza tribale della fratellanza, come vuol essere questa fiaba, ciascuno a suo modo, e col suo ritmo, ognuno per l’altro, con amore e rispetto.
Insomma. Discontinuo sul piano teatrale, per montaggi paralleli, ma poetico e pieno di vita, e in crescendo. E ti entra dentro.
KARIBUNI-Il sangue è rosso per tutti – Dal libro ‘Karibuni’, di Giancarlo Di Giacinto – Adattamento e regia – Bruno Petrosino – Con Giancarlo Di Giacinto, Bruno Petrosino – Musiche originali dal vivo – Andrea Causapruna – Teatrosophia dal 7 al 10 marzo 2024
Foto di copertina: Giancarlo Di Giacinto e Bruno Petrosino – foto di ©Grazia Menna