Un Čhecov alcolico e stralunato al Vascello

Una parata circense di fronte a testimoni muti

Uno Zio Vanja dall’impeccabile ritmo tragicomico questo di Leonardo Lidi, andato in scena al Teatro Vascello, seconda tappa del progetto che prevede una trilogia cechoviana :  Il Gabbiano, Zio Vanja, Giardino dei ciliegi.

Come già in Lo zoo di vetro , di Tennessee Williams (L.Lidi, 2019), la regia si articola attorno ad una macchina scenica semplice e sintetica – là come qua opera di Nicolas Bovey – cioè una pedana con parete, che articola un davanti ed un dietro, e galleggia in scena, come un mondo a sé.

Ma se là la pedana era ampia, ed immersa in un oceano di palline, e la parete, di un rosa falso infantile, alla fine crollava, qui mancano colore e profondità.

La parete è di un ruvido legno chiaro, alta, incombente, a chiudere lo spazio, con appena un corridoio stretto davanti, ed una lunga panca alla base.

E allora  i personaggi – che emergono e spariscono da un retro che è la loro zona d’ombra – si trovano in uno spazio claustrofobico, metaforico della loro prigionia esistenziale. Come nei misteri medievali, una passerella tragicomica sul disagio esistenziale, a cui la regia di Lidi riesce a dare, a sprazzi, tratti beckettiani. Ne esce col massimo risalto la modernità di Cechov.

Assistiamo così ad una specie di vaudeville dell’infelicità, dove il discorso degli attanti si svolge spesso come straniato comicamente, e stralunato, dalla presenza frequente di figure di testimoni muti, di volta in volta la balia, il guardiano, il proprietario terriero. Prevalentemente in stop motion, imperturbabili e trasparenti. Talora emergenti con commenti stranianti, di comicità popolaresca. Fra tutte la balia – un po’ come la governante in Romeo e Giulietta – che se risulta solo sdrammatizzante quando dice “Le oche starnazzano, e poi si calmano”, veramente surreale e straniante è quando, dopo l’episodio di Vanja che spara al professore, si alza, come presa da un compito importantissimo, per dire che deve andare a fare gli gnocchi.

E non a caso, a sottolineare l’irrilevanza del tragico, proprio qui, mentre Vanja giace a terra disperato e prostrato, riappare in scena anche il cane (uno splendido scottish terrier nero). Non un caso certo. Il cane appare ad inizio spettacolo, e si aggira anche in platea, e poi solo qui alla fine (salvo poi mettersi pedantemente in fila al momento  degli applausi).

Il testimone muto. 

Sì. L’irrilevanza del tragico, ma anche l’imperturbabilità della natura, o il muro del pianto, l’ascolto muto e pietoso. O forse il muro di indifferenza su cui scivola il lamento. Comunque l’alterità in cui la soggettività naufraga e balbetta. Ubriaca. Certo, soggettività ubriaca. Perché l’altra grande cifra – per i due protagonisti maschi – è l’ubriachezza. L’alcool come viatico della confessione, del riso e del pianto. Dello stralunamento. 

E Mario Pirrello (il medico, Astrov) e Massimiliano Speziani (zio Vanja) sono magistrali nel giocare gestualmente la scompostezza confessionale – disperata – tra sogno polemica rimpianto. Tra riso e pianto. Sopra le righe, logorroici, stralunati, tracimano, per eccesso di sogno e frustrazione, con momenti mimici tra il clownesco e la maschera espressionista. Culminante in tal senso la statua di fratellanza cristica inscenata tra il tentativo di Vanja di sparare al professore (reo di voler vendere la tenuta), ed il successivo tentativo di suicidio rubando della morfina.

Una fratellanza – quella di Astrov e Vanja – nonostante la competizione. Perché entrambi amano Elena (l’attuale moglie del prof., in seconde nozze), preda impossibile, lei stessa infelice, che pure ad Astrov concede baci appassionati.

Più forte della competizione è infatti la comunanza di sentire nell’infelicità.

E dunque .. Eccoli .. I due .. In piedi sulla panca stretta, addossati in equilibrio instabile alla parete. Astrov, dietro a Vanja, piangente, lo abbraccia e sostiene, come in una passione laica, e dopo una dissolvenza per vibrazione luminosa e rumore, riemerge dal buio ancora a consolarlo, ora a lui di lato, mentre Vanja sta come pietrificato, la bocca spalancata nella maschera dell’urlo muto.

Più contenute, a scatti e sussulti, le due donne, entrambe infelici, in gabbia, come tutti i personaggi cechoviani, che non osano, e la vita e la routine se li portano via, non prima di averceli aperti, sulla soglia, in un ultimo brivido di sogno e ribellione.

Elena, che non ama più il professore, ma non osa rompere, riamare, né trovare qualcosa con cui riempire la propria vita.

E Sonia, che spera inutilmente nell’amore di Stratov. Anche qui competizione e pietà reciproci. Le due donne intorno a Stratov. Sonia – una vibrante Giuliana Vigogna – è tutta fiamma e rinuncia. Elena – ben interpretata daIlaria Falini nei due registri – è più giocata sull’altalena tra ripulsa indecisione ed improvvise fiammate di cedimento e passione, al limite del comico, come quando si butta all’improvviso addosso a Stratov, avvinghiandosi.

Ci sono poi i due estremi: il professore e Astrov. Il professore, un tempo idolatrato da Vanja è ora pensionato e malato. E’ odiato da Vanja perché vuole vendere la tenuta (ma non lo farà) insultando così tutta la vita ad essa inutilmente dedicata dall’ex cognato (Vanja era il fratello della prima moglie).

Il professore è uno dei due estremi perché è l’anti idealista, e la sua parabola discendente non ha voce o lamento. Parla spesso nel retroscena, invisibile al pubblico, e quando compare sembra quasi un pupazzo del degrado, in stato stuporoso (un compito gestuale ben svolto da Maurizio Cardillo). Sta infatti in giacca e cravatta, ma nudo sotto, in mutande.

Quanto ad Astrov (non a caso ottiene per un attimo l’amore di Elena) è l’iperbole del sognatore impenitente, un idiota dostoevskiano, al contempo disgustato e pervicacemente ingenuo e puro. 

Inveisce contro l’imbecillità umana degli intellettuali, e sogna di difendere la natura (l’opposto della distruttività umana) piantando alberi. 

Qui Cechov si rivela modernamente ecologista, e la regia dilata la cosa in modo creativo, con un improvviso cambio del registro scenico. 

Né il buio né la ruvida nudità del legno della parete, in piena luce. 

Astrov parla ad Elena (per conquistarla) dei suoi sogni, mostrandole i suoi disegni. Ma lo fa in piedi sulla panca, di spalle al pubblico, e la penombra si anima e giganteggia di colori – il colore dei sogni – essendo i disegni proiettati sulla parete, dove lui li carezza e ripercorre con la mano, illustrandoli.

Sono disegni dal tratto infantile con colori carichi ed oggetti sovradimensionati, cosa che permette alla regia di giocare poi un violento contrasto, a significare la violenza dell’umano. Attualizzando, infatti, viene inserito un ultimo disegno, anzi forse una foto. In bianco e nero, e sembra uno squarcio di Ucraina post bellica, con devastazione e case distrutte, con il controcanto patetico del giganteggiare in primo piano di un orso di pezza giallo, abbandonato per strada.

Che dire. Tornando agli inizi. Molti disegni tra trama e ordito, ma una perfetta capacità di amalgamare gli opposti, il tragico, il comico, il patetico, il senso del reale. Talora con fulminanti battute beckettiane. Con un affollato senso del ritmo, senza vuoti pur essendo una sinfonia sul vuoto ed il nonsense delle vite al termine, e della vita  sempre – qui in provincia, ma nel mondo in generale, come sempre i testi cechoviani.

Una malinconia cechoviana tuttavia virata in alcolico, che il sogno finale di Sonia di un premio nell’aldilà non può che rendere ancora più comicamente amara.

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Zio Vanja Di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi Con  Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna – scene e luci Nicolas Bovey – costumi Aurora Damanti – suono Franco Visioli – assistente alla regia Alba Porto – Teatro Vascello, Roma, 9-14 aprile 2024