Per chi è nato negli anni ’80 e tra gli anni ’90 e i primi 2000 camminava e cantava verso la maturità, i Placebo, rock band cross-land composta dai due musicisti Brian Molko e Stefan Olsdal, sono stati il preavviso del futuro a venire.
Come accade per molte espressioni artistiche, in particolare per l’arte che nutre una nicchia speciale di amatori ma che si apre volentieri a messaggi più universali, il duo, londinese d’adozione, ha annunciato al XXI secolo l’avvento delle questioni gender.
È proprio a partire dagli anni ’80, infatti, anni in cui Molko e Olsdal vivono la loro adolescenza, che i nordamericani gender studies approdano nella cultura dell’Europa occidentale. Parte integrante dei cultural studies, la branca gender abbraccia argomenti riguardanti strettamente il formarsi del senso di identità nell’individuo e il rapporto che tale processo di individuazione del sé intreccia con la società degli altri – e Molko sembra farsene portavoce.
La “formula Placebo”, testata nel 1995 con la partecipazione della band alla competizione londinese Unsigned the city, funziona ed è, nello specifico, con il brano Nancy Boy che Brian Molko, Stefan Olsdal e Steve Hewitt, primo batterista della neonata band, si presentano all’interesse internazionale.
Indossando abiti femminili e attillati, eye-liner, rossetto ed unghie laccate – come da marziana lezione di David Bowie, amico e maestro riconosciuto dalla band – l’effeminato NancyMolko, il 20th century boy – siamo nel 1997 – fa strada, muovendo un’aperta critica alle spinte conformistiche nei discorsi inerenti al genere e alla sessualità, anche quando esse siano una moda controversa, perché pur sempre moda.
A partire dall’omonimo album d’esordio fino agli esiti recenti, la musica dei Placebo è sempre attraversata da un tremito che sembra giungere a supporters e ascoltatori dopo aver dapprima attraversato loro. Scelti medium, come solo nell’arte è concesso che accada, Brian Molko e Stefan Olsdal, raccontano all’occidente dei millennials storie da una ferita generazionale mai guarita (36 Degrees, Bruise pristine), quella di non trovare e avere un posto (Black eyed, Teenage angst, You don’t care about us), di non conoscersi e non essere riconosciuti (Ask for answers, I Know), e ancora la perdita e lo smarrimento del senso (A million little pieces, Commercial for Levi), così come l’inevitabile e conseguente ricerca e l’abbandono, nelle droghe legali e illegali, nell’alcool (Been smoking too long, Meds, Lady of the flowers), in relazioni da consumarsi e in cui farsi consumare (Every you every me), nell’amarezza e nella rabbia (Passive aggressive, The bitter end) e nel desiderio di rivalsa (Infra-red, Broken promise ft. Micheal Stipe), salvo poi dedicare alcuni dei propri brani più belli all’amore (Without you I’m nothing ft. David Bowie, My sweet prince, Soulmates, Breathe underwater, Bosco, Beautiful James, I’ll be yours), sempre sofferto, ai crolli, ai giri a vuoto su sé stessi (Peeping tom) e poi all’eterno approdo della spiritualità e della ricerca interiore (Twenty years, Battle for the sun, Jesus’son), trasformando le loro canzoni in un grido mai sommesso, in un pianto di cristallo.
La band ha saputo interpretare il dolore di decenni vissuti sulla pelle e la chiusura sofferta a fronte di un comune desiderio di internazionalità e di Europa, agli albori e dopo il costituirsi dell’Unione Europea. Lo stesso Brian Molko, nato e cresciuto a Bruxelles e trasferitosi poi a Londra, ha criticato apertamente la Brexit, definendo la musica dei Placebo culturalmente europea e non solo inglese, preferendo le frontiere ai confini, gli spazi aperti di scambio e contaminazione agli orgogli nazionalistici.
In concerto per il Sonic Park Festival, nello spazio della Cava del Sole il 16 luglio scorso a Matera, il duo, accompagnato da session men&women di grande abilità musicale, dopo aver ricordato Pasolini tra i sassi, ha proposto brani da Loud Like Love (2013) e Never Let me Go, ultimo album all’attivo (2022) e pescato granelli di rabbia dall’oceano delle emozioni passate.
La scaletta del tour 2023 sembra scelta per sottolineare il cambiamento che tutti abbiamo vissuto e si rivolge con sguardo commosso e ancora addolorato alla condizione dell’individuo schiacciato dai ricordi (Forever chemicals), dal peso delle apparenze e dalla necessità di trovare pace (Scene of the crime), alla perdita di coloro che amiamo (Happy Birthday in the Sky, con una dedica all’attrice Jane Birkin, scomparsa lo stesso giorno del concerto e intima amica di Brian Molko), alla solitudine che deriva dalla mancata accettazione di sé stessi (Hugz) e all’isolamento indotto dalla tecnologia (Too many friends), tanto seducente e dannosa –(Surrounded by spies è una feroce critica alla progressiva riduzione della privacy dall’avvento di internet ad oggi) – quanto le droghe che, sperimentate per “uscire” sono destinate invece ad ingabbiare.
Non mancano i brani di chiara condanna alle dinamiche socioeconomiche proprie di un capitalismo perverso, con l’iconica Slave to the wage, una corsa verso il nulla (come in Bionic) nella quale, alla fine, ci si perde (Went missing) per collassare nel mai (White sad reggae) di un’eterna fuga da una realtà scadente.
In apertura la voce di Molko, proiettata dagli schermi e dal suo volto di maschera, come un contemporaneo Guy Fawkes, il V per Vendetta del regista James McTeigue, chiede al pubblico dei fan di spegnere i cellulari e stare, di essere presenti e nel presente.
Non è immediato entrare in simbiosi nella distanza che crea il ricordo del Brian Molko irriverente, l’angelo-demone che ammiccava ai fan dagli enormi occhi verdi negli anni ’90 e il Molko di oggi, non meno indocile di allora sulle numerose chitarre che lo accompagnano ma, di sicuro, musicalmente e personalmente più consapevole.
“Siamo il frutto di quello che ci è stato fatto” – sembra di sentire questa lezione tra i suoi versi – e l’impossibilità di un rimedio semplice in questa vita e su questa Terra maltrattata, lascia spazio al bisogno di una dimensione trascendente, lì dove sussiste ancora la possibilità di sentirsi, di essere davvero insieme. Try better next time.
E con la loro musica ci si riesce. La schiena dà i brividi, anche se la fatica necessaria a rompere la plastica isolante del proprio individualismo è tanta e loro lo sanno. Bisogna smettere di voler compiacere e rischiare (For what it’s worth, The bitter end), tenere gli occhi bene aperti (Infra-red) e gridare la verità (Shout, cover del brano dei Tears for Fears). Sarebbe preferibile, inoltre, che ognuno pensasse anzitutto a migliorare sé stesso (Fix yourself).
Non c’è bis, i due non tornano sul palco dopo l’ultimo brano, la bellissima cover di “Running up that hill (A deal with God)” di Kate Bush.
Il bassista Stefan Olsdal scende a salutare i fan. Molko sparisce. Lo si immagina da qualche parte, impegnato in conversazioni e saluti con i suoi e i nostri demoni e dèmoni, inchinato in un pacifico namaste.
Placebo Tour 2023 – Brian Molko (voce, chitarre) Stefan Olsdal (basso, chitarra e tastiere) – Matera, Cava del Sole – Sonic Park Festival 16 luglio