Dante morì a soli 56 anni, giammai vecchio dunque; anzi a un’età che oggi non s’allontana troppo dal mezzo del cammin di nostra vita: e l’intuizione pregevole di Pupi Avati è proprio quella di restituirci il fresco viso di un giovane che si potrebbe definire affettuosamente «uno sbarbatello» del tutto inatteso al grande pubblico, abituato da secoli a riconoscere il grande poeta fiorentino nell’arcigno profilo nasuto e un po’ musone. Invece il sorriso quasi ingenuo del bravo Alessandro Sperduti sorprende assai positivamente lo spettatore e regala al film un senso di leggerezza che altrimenti prenderebbe una piega eccessivamente solenne. Intrigante e ben studiato anche il percorso del racconto della vita di Dante, narrato da Giovanni Boccaccio (un ottimo Sergio Castellitto), incaricato dall’ingrato governo fiorentino di donare dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico alla figlia del poeta, monaca in un monastero di Ravenna.
Senonché, tra la scelta quasi impeccabile del cast (sublime l’amata Beatrice di Carlotta Gamba, per esempio, tutta condensata nell’accecante passionalità del suo sguardo: lucevan li occhi suoi più che la stella) e lo splendore della ricostruzione dei villaggi medievali che spesso fanno da cornice a immagini dichiaratamente «rubate» ai dipinti dell’epoca, il film saltella da un episodio all’altro della vita dell’Alighieri, senza mai concentrarsi su un solo tema – eccetto quello portante, che però è il viaggio di Boccaccio e non la vita di Dante – a discapito di una sceneggiatura atassica e poco incline all’emozione.
L’affinità elettiva con Guido Cavalcanti, per fare un esempio, è più detta che vissuta dai protagonisti, e l’affetto improvviso che si vede scoppiar tra di loro, durante l’ultimo incontro, risulta quasi una stranezza per lo spettatore che ignora la vicendevole e amichevole tenzone a colpi di sonetti. Dante Alighieri, inoltre, proprio in gioventù, sviluppò un amore immenso per la letteratura latina, e per quel Virgilio che fu suo maestro e fonte di conoscenza e di saggezza: ebbene, non c’è una sola immagine che mostra Dante alle prese con la lettura di un libro (l’Eneide, visto che poi è s’è rivelata la sua guida nella composizione della Commedia).
Così come manca totalmente la parte dolorosa dell’esilio: dalla condanna fino alle peregrinazioni da un casato all’altro; omesse le ambascerie da guelfo; ignorate le commissioni che lo portarono a diventare rivale di Benedetto Caetani prima ancora che costui diventasse quel detestabile pontefice che sappiamo; manca pure ogni accenno a quel santo papa che fu Celestino V, incautamente definito dalla ormai passata critica letteraria colui che fece per viltade il gran rifiuto.
Insomma il Dante di Pupi Avati soffre di omissioni anche importanti: infatti non è nemmeno troppo concentrato sulla scrittura della Commedia, ma s’alterna tra il giovane sognatore di sonetti e canzoni della Vita Nuova e il soldato occasionale a Campaldino (come poi si sviluppò la battaglia, anche questo resta un mistero!). Quando infine la storia volge al termine, e Boccaccio-Castellitto raggiunge il monastero dove soggiorna la figlia del poeta, allora il dialogo finalmente diventa intenso e l’emozione all’improvviso prende quota, ma forse è soltanto il nostro frutto poetico ed intimo dell’amor che move il sole e l’altre stelle.